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— Sì, stabiliamo dei turni. È più giusto.

— È democratico.

Douglas scosse la testa. — Comandare una spedizione quasi militare non è un lavoro democratico.

— Andiamo, Douglas — lo rimproverò Catherine. — Non voler fare sempre tu l'eroe. Concedi una possibilità anche agli altri.

Mentre percorrevano il corridoio che portava al loro alloggio, Douglas strusciò un piede sul pavimento di plastica e disse: — Te lo immagini coperto d'erba?

Lisa, che gli camminava accanto, guardò il soffitto a volta, di nuda roccia. — Ci occorrerebbero alcune lampade speciali — disse. — Agli infrarossi, credo. O agli ultravioletti?

— Quasi infrarossi — rispose lui meditabondo. — Potremmo procurarci facilmente i gas inerti per le lampade fluorescenti. E le rocce sono piene di vetro.

— Così basta che ci procuriamo le sementi.

— E i concimi.

— Sylvia Dortman, del laboratorio di biologia, potrebbe produrre i microbi che fissano l'azoto, per l'erba. Lo si faceva sulla Terra prima… prima… — le mancò la voce.

Continuarono a camminare in silenzio per un po', poi Douglas chiese: — Perché ti sei dichiarata contraria a che guidassi la prossima spedizione?

Lei lo guardò un attimo, poi distolse gli occhi. — Non lo so. L'ho detto istintivamente.

Douglas la scrutò con attenzione mentre continuavano a camminare. Questa era la Lisa che aveva conosciuto tanto tempo prima sulla Terra, la bellezza calda e vulnerabile di cui si era innamorato. Non la fredda statua di ghiaccio che era diventata. Che il ghiaccio si stia sciogliendo?, si chiese. Può essere che tutto quello che è successo in questi ultimi tempi l'abbia ricondotta a me?

Cercò di parlare, ma le parole gli si fermarono in gola. Come uno scolaretto! pensò, deglutendo a vuoto.

Finalmente riuscì a dire: — Lisa, prima, alla riunione hai detto che non volevi correre di nuovo il rischio di perdermi.

— È vero — rispose lei con voce appena percettibile.

— Parlavi sul serio? Davvero…?

Lisa inciampò su un'increspatura del pavimento, e lui allungò la mano per sorreggerla. Lei gli afferrò il braccio, si girò, si strinse a lui e lo baciò con passione. Sentiva Lisa calda e vibrante fra le sue braccia. — Oh, Douglas — mormorò — ti prego, ti prego, non lasciarmi ancora. Dimentichiamo il passato. Stiamo sempre uniti.

— Sì, sì, certo. Non ti lascerò mai, Lisa. Ti amo, ti ho sempre amata. Sempre — mormorò lui con le lacrime agli occhi. Quelli di lei erano asciutti, ma Douglas non se ne accorse.

Qualche ora dopo, nel buio della loro stanza, col calore della passione che andava lentamente attenuandosi, Douglas si alzò a sedere sul letto disfatto.

— Cosa? — chiese Lisa con voce assonnata.

— Fissili.

— Cosa? — ripeté lei.

— Sostanze fissili per i generatori nucleari. Uranio, torio. Senza i generatori, le macchine non funzionano.

— Credevo che ne avessimo a sufficienza per parecchi anni.

— Circa cinque.

— Oh, ma prima di allora ne trovemo anche qui sulla Luna.

— È poco probabile. Qui finora non è stato trovato niente di più pesante del ferro, se non in quantità microscopiche. Dobbiamo andare sulla Terra per procurarci i materiali fissili.

— Invece dei generatori nucleari potremmo servirci dell'energia solare.

— Vorrei che fosse possibile — rispose lui con un sospiro — ma per farlo ci servirebbero i trasformatori che non abbiamo, e che non siamo nemmeno in grado di fabbricare.

— E allora manderemo sulla Terra qualcuno che ci procuri sostanze fissili.

— Per forza.

— Fra cinque anni. Adesso sdraiati e dormi.

— Già, fra cinque anni. Forse anche prima.

Sapevano tutti e due che avrebbe guidato lui quella spedizione sulla Terra, o che, quanto meno, avrebbe cercato di farlo.

5

Passarono cinque anni. La comunità lunare crebbe. I minatori scavarono senza sosta la roccia, ampliando con quanta più celerità potevano le istallazioni. La roccia scavata, fusa col laser o fatta esplodere per ottenere spazio sottoterra, divenne materiale grezzo per le fabbriche. Dalla roccia si ricavarono alluminio e vetro, silicio per i pannelli solari, ossigeno per il sistema di sussistenza, elementi con cui produrre, sinteticamente, concimi e vitamine. Dal suolo scavato in superficie dai bulldozers si ricavò ferro meteorico, carbonio, l'idrogeno incastrato nel terreno dall'incessante vento solare, quell'idrogeno che, unito all'ossigeno, fornì l'acqua, l'elemento più caro e prezioso sulla Luna.

Molte spedizioni scesero sulla Terra. Dapprima ogni due o tre mesi, poi due all'anno e infine una all'anno. Modificarono i razzi da trasporto costruiti sulla Terra in modo che funzionassero con un nuovo carburante a base di alluminio e ossigeno. Spesso facevano tappa sulla gigantesca stazione spaziale che continuava ancora a orbitare a poche centinaia di chilometri dalla Terra. Il personale della stazione era stato ucciso dall'esplosione solare, e molte apparecchiature elettroniche erano state gravemente danneggiate. Nella stazione c'erano quattro navette, che la catastrofe aveva risparmiato e con le quali era possibile andare e tornare dalla Terra.

Le prime spedizioni consentivano l'approvvigionamento di medicinali, sementi, parti elettroniche, fertilizzanti e bombole di azoto. E superstiti. Pochi uomini e donne affamati, stracciati, malati, che erano riusciti a farsi passare come abili tecnici utili alla comunità lunare.

Fu la sesta spedizione a incontrare per la prima volta una resistenza armata. Dodici uomini vennero uccisi o abbandonati. Quattro furono ricondotti sulla Luna feriti. Kobol, che guidava la spedizione, riportò una ferita d'arma da fuoco alla coscia, in seguito alla quale rimase lievemente zoppo.

Dopo questi «incidenti», le spedizioni diminuirono, e ogni volta si cambiò il punto di atterraggio. Bande di saccheggiatori si radunavano nell'antico Centro Spaziale Kennedy, per tendere un'imboscata alle navette che scendevano sulla pista lunga cinque chilometri.

Ma scegliere i punti adatti dove atterrare non era cosa facile. La maggioranza dei più importanti aeroporti era troppo vicina alle città distrutte perché non sussistesse il pericolo delle radiazioni.

Passarono quattro mesi prima che un'altra spedizione scendesse all'Aeroporto Internazionale Dulles, a più di quindici chilometri dal cratere dove un tempo sorgeva Washington. I membri della spedizione razziarono una base militare che si trovava nelle vicinanze per procurarsi armi e munizioni, stando all'erta nel timore che sopraggiungesse qualche banda di predoni, e con un occhio ai rilevatori di radiazioni che ognuno portava appuntato alla tuta.

Quella spedizione fu una delle ultime. Quando ricorse il quinto anniversario dell'esplosione solare, era passato un anno da quando l'ultima navetta era scesa sulla Terra.

— Perché andarci? — si chiedeva la gente. — Ci sono solo delinquenti e morti. Noi ce la caviamo benissimo qui. Non abbiamo bisogno della Terra.

Douglas tentava di convincerli che erano debitori verso il mondo dove erano nati. — Dovremmo aiutarli a ricostruirlo. Dovremmo stabilire una base permanente sulla Terra, dove la gente possa ripararsi e stare al sicuro, un punto d'appoggio dove sia possibile iniziare la ricostruzione della civiltà.

Sorridevano e si congratulavano con lui per i suoi ideali, ma quando si veniva al voto lo mettevano in minoranza.

Verso la metà del sesto anno inviarono una piccola spedizione che doveva scendere in quello che un tempo era il Connecticut. Fra le colline ondulate della parte occidentale erano annidate tre centrali nucleari perfettamente efficienti e funzionanti; tre centrali che le bombe che avevano distrutto Boston e New York non avevano toccato. La spedizione non incontrò ostacoli, ma trovò scarse quantità di materiale fissile; soltanto uranio, poco, sufficiente a fare funzionare le fabbriche lunari per qualche anno. Al ritorno, due membri della spedizione si ammalarono e poi morirono per effetto delle radiazioni.