Poi era seguito il lungo ritorno sulla Luna, coi superstiti malati e affamati, e il ricordo degli altri che era stato costretto ad abbandonare, troppo deboli per affrontare il viaggio, troppo vecchi per rendersi utili in seguito, troppo malati per essere salvati dalle limitate attrezzature mediche disponibili sulla Luna.
Douglas aveva l'impressione di essere invecchiato di dieci anni in meno di un mese. Aveva ancora nelle narici il lezzo dei corpi in decomposizione; gli pareva che quell'odore gli si fosse appiccicato agli abiti, alla pelle.
E poi l'accoglienza trionfale, il ritorno dell'eroe, il tumultuoso entusiasmo dei suoi amici e colleghi, che se l'erano issato in spalla, lodandolo, ridendo, festeggiandolo, benedicendolo. Per che cosa?, si chiese Douglas. Per aver aggiunto due dozzine di invalidi alle nostre già precarie attrezzature? O perché ho alimentato, in tutti gli abitanti della Luna, la speranza che un giorno potremo tornare sulla Madre Terra?
Ora Lisa gli stava davanti. Pallida e magra nella tuta nera, lo guardava con un'espressione indecifrabile. Douglas si rese conto che non l'aveva mai capita. L'amava, ma per quanto si sforzasse non riusciva a sondarne gli umori. Forse, gli sussurrò un'ironica voce interiore, tu non ami lei, la vera Lisa Ducharme Morgan, ma l'idea che ti eri fatta di lei. Questo è proprio del tuo carattere, Douglas: ti innamori di un'idea e vuoi che la realtà si pieghi alla tua fantasia.
— Cosa si prova a essere un eroe? — chiese Lisa.
Lui si limitò ad alzare le spalle.
Lisa sedette sul bordo del letto, rigida, con le mani strette e contratte. Douglas rimase accanto alla porta, sapendo che, se le si fosse seduto vicino, lei si sarebbe scostata.
— Abbiamo parecchie cose da dirci — disse lui.
— Non ho voglia di parlare.
— Prima o poi…
— Cosa avresti fatto se Fred non fosse morto? Lo avresti ucciso?
Douglas non sapeva cosa rispondere.
— E allora?
— Ci sono già stati troppi morti — rispose lui, rivedendo i resti insanguinati delle città vicine a Cape Canaveral. Il livello delle radiazioni si era rapidamente abbassato, ma le città si erano autodistrutte in un'orgia di avidità e terrore. In Fionda non c'erano posti da scavare, nessun posto dove nascondersi dal fallout. Ma anche nei ricoveri antiatomici del centro spaziale i superstiti si erano massacrati a vicenda per il possesso di una briciola di cibo o di un angolo più sicuro dove nascondersi.
— Il tuo onore è pago? — chiese con disprezzo Lisa. — Lui è morto, e anche il bambino.
— Cosa c'entra l'onore? — sbottò lui. — Quando mai ti sei preoccupata dell'onore? L'hai fatto qui, in questo letto, o su nel suo?
Un sorrisetto amaro le arricciò l'angolo delle labbra. — Che cosa ti fa pensare che l'abbiamo fatto qui o là? O che l'abbiamo fatto una volta sola? Solo nei melodrammi le ragazze restano incinte dopo una sola scopata.
Lui si avventò, senza quasi rendersene conto, e la schiaffeggiò. Il colpo risuonò nella stanzetta e Lisa cadde all'indietro sul letto. Si rialzò lentamente, con la guancia arrossata e bruciante.
— Grazie — gli disse adagio. — È proprio quello che mi aspettavo da te.
Lui si voltò e uscì furibondo dalla stanza.
Douglas girovagò per ore nei corridoi, camminando senza meta lungo quei tunnel scavati nella roccia che collegavano le diverse parti dell'installazione. Attraversò il reparto idroponico con le grandi vasche alimentate da tubi senza guardare né a destra né a sinistra, senza vedere niente all'infuori della faccia di sua moglie con l'impronta del suo schiaffo.
Avrei potuto ucciderla, pensò. Come ho potuto agire così, se l'amo?
Si fermò qualche minuto nel reparto dove venivano lavorate le rocce, assorbendo il frastuono e le violente vibrazioni delle grosse frantumatrici. Rumore e vibrazioni lo distrassero. Le pesanti macchine funzionavano tutte automaticamente: la roccia lunare entrava da una parte nelle massicce frantumatrici e sgretolatrici e usciva dalla parte opposta divisa in polvere di alluminio, titanio, ossigeno e altri minerali. Parte veniva incanalata verso le raffinerie di metalli. Il resto, mediante nastri trasportatori, veniva convogliato negli elettrolizzatoli di rame del reparto dove si produceva l'acqua.
Douglas si sentì battere sulla spalla. Si voltò e vide uno dei tecnici più giovani che gli porgeva un paio di auricolari, gridando per farsi sentire al di sopra del frastuono: — È il regolamento, signore. È proibito stare qui senza.
Douglas alzò gli occhi verso la grande finestra della sala di controllo, scavata in alto nella roccia. Dietro il vetro c'era Larry LaStrande che lo osservava con un binocolo. Douglas lo salutò con un cenno e uscì dalla caverna lasciandosi alle spalle il giovane coi suoi auricolari.
Alla fine, inevitabilmente, salì in superficie. Impiegò quasi un'ora per infilarsi nella tuta rigida, controllando le chiusure, il sistema di respirazione, la radio, il riscaldamento, costringendo la mente, per non pensare ad altro, a occuparsi dei mille particolari dell'abbigliamento nel vuoto.
Dopo essere passato sotto il controllo della squadra di sicurezza nell'ufficio apposito, entrò nel compartimento stagno e si chiuse alle spalle la pesante porta. Pochi minuti dopo la cavità metallica rimase completamente priva d'aria e la luce sull'indicatore accanto al portello esterno diventò verde. Douglas spinse il pulsante con la mano guantata e il portello scorrevole si aprì.
Fuori si stendeva un panorama strano e sterile, quasi incolore. Il terreno accidentato era un susseguirsi di grigi su grigi. Alle sue spalle s'innalzava la parete a terrazzi del bordo del cratere Alphonsus, massiccia, scabra, silenziosa. Attraverso il visore colorato del casco sbirciò oltre il bordo del cratere il cielo eternamente nero che spariva al di sotto dell'orizzonte vicino. I picchi centrali del cratere si ergevano corrosi da eoni di bombardamenti meteorici, ridotti a logori e smozzicati blocchi di pietra grigia.
Un mondo morto, pensò Douglas. Pietra congelata. Niente aria. L'unica acqua disponibile è quella che ricaviamo dalla frantumazione delle rocce. L'unica vita, e che vita precaria, è la nostra.
Il suo sguardo si posò sulla scintillante distesa dei pannelli solari che coprivano centinaia di acri del fondo butterato e arido del gigantesco cratere. Douglas vi si diresse con un sospiro rassegnato. Tanto vale controllare che qualche meteorite non li abbia danneggiati, pensò. Speriamo che l'esplosione solare non abbia provocato danni durevoli.
Mentre camminava con la lentezza di sogno dovuta alla bassa gravità lunare, sollevando piccole nubi di polvere a ogni passo, guardò il cielo. La Terra stava sospesa su di lui, enorme, gibbosa, bianca e azzurra, luminosa dove batteva il sole. Sei ancora viva, disse, nonostante tutto, sei ancora viva.
Si costrinse a riabbassare lo sguardo sulla nuda roccia della Luna.
— Come mi sembra inutile, logorante, monotono lo sfruttamento di questo piccolo satellite — mormorò fra sé.
Tornò a guardare la Terra. Ma stavolta non vide il luminoso globo bianco e azzurro lontano trecentottantaquattromila chilometri, ma il mondo che lo aveva accolto quando vi era sbarcato poco meno di tre settimane prima.
Nonostante le devastazioni provocate dal sole e dai missili nucleari, era ancora un mondo verde e vivo. Palme e cipressi ingentilivano ancora le spiagge della Florida. Uccelli selvatici sfrecciavano ancora nel cielo dolcemente azzurro. E la gente viveva ancora, anche se i superstiti soffrivano per l'effetto delle radiazioni, erano feriti, malati e affamati.
Fra poco sarebbe sopravvenuto l'inverno. Chi viveva nelle zone calde o temperate forse sarebbe riuscito a sopravvivere, ma cosa ne sarebbe stato di quelli che abitavano più a nord? Cosa avrebbero fatto quando avrebbe nevicato, quando per riscaldarsi ci sarebbe stata solo la legna che avrebbero dovuto procurarsi di persona: niente elettricità, né viveri, né medicinali?