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A un segnale inespresso entrò un assistente, si avvicinò a Falk mentre Ken Kenyek si sedeva davanti a uno dei quadri di controllo del computer, come un musicista si accosta al suo strumento. Per un attimo Falk ricordò il grande telaio crea-forme nella Sala del Trono del Kansas, le veloci mani nere che si libravano sopra il ripiano, facendo e disfacendo le sicure, mutevoli forme di pietre, stelle, pensieri… Una nerezza calò come un sipario sopra i suoi occhi, sopra la sua mente. Fu consapevole che gli era stato infilato qualcosa in testa, un cappuccio, un berretto; poi non fu più consapevole di nulla, solo la nerezza, una nerezza infinita, il buio. Nel buio una voce che pronunciava una parola alla sua mente, una parola che quasi capiva. Di nuovo e di nuovo la stessa parola, la parola, la parola, il nome… Come l'ultimo guizzo di una luce, la sua volontà di sopravvivere guizzò, ed egli dichiarò con uno sforzo orribile, che si contrapponeva a cose così straordinarie, in silenzio: Sono Falk!

Poi il buio.

9

Era un posto tranquillo e oscuro, come in una profonda foresta. Debole com'era rimase a lungo nel dormiveglia. Spesso sognava, o ricordava frammenti di un sogno che aveva fatto in un sonno precedente, più profondo. Poi riprendeva a dormire per svegliarsi nell'oscura luce verde, nella tranquillità.

Ci fu un movimento accanto a lui. Girando la testa vide un giovane, uno straniero.

— Chi sei?

— Har Orry.

Il nome precipitò come un sasso nella sognante tranquillità della sua mente e svanì. Solo che i cerchi originati da quel sasso si allargarono, si allargarono fievolmente, lentamente, finché alla fine il cerchio più esterno toccò riva e si ruppe. Orry, il figlio di Har Weden, uno dei viaggiatori… un bambino, un ragazzetto nato d'inverno, l'inverno di Werel.

L'immobile superficie di quello specchio d'acqua che era il suo sonno fu solcata da un impercettibile disturbo. Richiuse gli occhi e desiderò di lasciarsi affondare.

— Ho sognato — mormorò a occhi chiusi. — Ho fatto un mucchio di sogni…

Ma era di nuovo sveglio e guardava quel viso spaventato, dubbioso, infantile. Era Orry, il figlio di Weden: Orry come poteva essere un cinque, sei fasi lunari dopo, se erano sopravvissuti al Viaggio.

Che cosa aveva dimenticato?

— Che posto è questo?

— Per carità, sta' fermo, prech Ramarren… non parlare ancora; sta' fermo per favore.

— Cosa mi è successo? — Lo stordimento lo costringeva a obbedire al ragazzo e a restare disteso. Il corpo, perfino i muscoli delle labbra e la lingua, non gli obbedivano correttamente. Non si trattava di debolezza, ma di una strana mancanza di controllo. Per sollevare la mano doveva compiere un consapevole sforzo della volontà, come se la mano che sollevava fosse stata di qualcun altro.

La mano di qualcun altro… Si guardò il braccio e la mano per un bel po'. La pelle era curiosamente brunita, un colore che ricordava il mantello di un cerbiatto. Per tutto l'avambraccio fino al polso correva una serie di cicatrici bluastre parallele, leggermente punteggiate, come se fossero state fatte da ripetute punture d'ago. Anche la pelle del palmo era indurita e segnata dal tempo, come se fosse stato all'aperto a lungo, anziché nei laboratori e nelle sale dei computer del Centro dei Viaggi e nelle Sale del Consiglio e nei Luoghi del Silenzio di Wegest…

D'un tratto si guardò attorno. La stanza dove si trovava non aveva finestre; ma stranamente poteva vedere la luce del sole attraverso le pareti verdastre.

— C'è stato un incidente — disse infine. — Al momento del lancio, o quando… Ma il Viaggio l'abbiamo fatto. L'abbiamo fatto. O l'ho sognato?

— No, prech Ramarren. Abbiamo fatto il Viaggio.

Ancora silenzio. Dopo un poco disse: — Riesco a ricordare il Viaggio solo come se fosse durato una notte, una notte lunga, ieri notte… Ma da ragazzo che eri ti ha fatto diventare quasi uomo. Ci siamo sbagliati, su questo, dunque.

— No, non è stato il Viaggio a farmi invecchiare… — Orry si arrestò.

— Dove sono gli altri?

— Dispersi.

— Morti? Dimmi tutto, vesprech Orry.

— Probabilmente morti, prech Ramarren.

— Che posto è questo?

— Riposa, per piacere.

— Rispondi.

— Questa è una stanza in una città che si chiama Es Toch sul pianeta Terra — rispose il ragazzo andando fino in fondo, ma poi ruppe in una specie di lamento. — Non la riconosci? Non ricordi niente di tutto ciò? Ma è peggio di prima…

— Perché dovrei ricordare la Terra? — bisbigliò Ramarren.

— Dovevo… dovevo dirti Leggi la prima pagina del libro.

Ramarren non prestava attenzione al balbettio del ragazzo. Adesso sapeva che era andato tutto a rotoli, e che era passato del tempo di cui non sapeva nulla. Ma fino a che non riusciva a padroneggiare questa strana debolezza del suo corpo non poteva far nulla, e così rimase tranquillo finché non gli passò lo stordimento. Poi, cercando di non pensare a nulla, prese a recitare dei Soliloqui del Quinto Livello; e quando gli ebbero calmato la mente, si decise a dormire.

Ancora una volta il suo sonno si affollò di sogni, complessi e terrificanti, eppure sgorgavano dolcemente come la luce del sole quando si fa strada nel buio di una antica foresta. Un sonno più profondo disperse queste fantasie, e il sogno divenne ricordo semplice e vivido: stava aspettando accanto all'aerostato per accompagnare il padre in città. Sulle colline pedemontane di Charn le foreste a metà spoglie si preparavano al lungo letargo, ma l'aria era calda, chiara e ferma. Suo padre, Agad Karsen, un uomo smilzo e minuto che indossava gli abiti del suo rango e calzava un casco con la pietra del suo grado, attraversava pacatamente il prato assieme alla figlia; ridevano entrambi perché lui la stuzzicava sul suo primo pretendente. — Ma dagli un'occhiata a quel ragazzo, Parth; ti farà una corte spietata se glielo permetti. — Parole pronunciate in serenità anni prima, nella calda luce solare dell'autunno lungo e dorato della sua giovinezza; ora le risentiva, assieme alla risata della ragazza come tutta risposta. Sorella, sorellina, amata Arnan… Come l'aveva chiamata suo padre? Non con il suo vero nome, ma qualcosa di diverso, un altro nome…

Ramarren si svegliò. Si sedette nel preciso sforzo di riprender il contatto del suo corpo, sì, suo ancora malcerto e tremolante, purtuttavia di certo suo. Al momento del risveglio aveva avuto la fulminea sensazione di essere uno spirito in carni aliene, smarrito, perduto.

Bene, invece. Era Agad Ramarren, nato nella casa argentea tra gli ampi prati, sotto il bianco picco di Charn, la Montagna Isolata; l'erede di Agad, nato d'autunno, cosicché tutta la vita l'aveva passata in autunno e inverno. La primavera non l'aveva mai vista, né mai doveva vederla, dato che l'astronave Alterra aveva iniziato il Viaggio verso la Terra il primo giorno di primavera. Ma il lungo inverno, l'autunno, la durata della sua età virile, dell'adolescenza, della fanciullezza, si stendevano dietro di lui vividi e continui, ben chiari nel ricordo, fiume che scorreva ininterrotto fino alla sorgente.

Il ragazzo Orry non era più nella stanza. — Orry! — esclamò ad alta voce; perché adesso era in grado di sapere, e voleva saperlo, cos'era successo a lui, ai suoi compagni, all'Alterra, alla loro missione. Non venne risposta, nessun segnale. La stanza sembrava non soltanto priva di finestre, ma anche di porte. Frenò l'impulso di chiamare il ragazzo telepaticamente: non sapeva se Orry fosse ancora sintonizzato con lui. Inoltre, poiché la mente aveva sofferto un danno o un'interferenza evidenti, era meglio procedere con cautela, tenersi fuori del contatto con qualsiasi altra mente. Prima bisognava sapere se era minacciato da un controllo della volizione o dell'acroma.

Si alzò in piedi ricacciando le vertigini e un lancinante dolore occipitale e percorse più volte la stanza avanti e indietro. A poco a poco i muscoli si scioglievano e frattanto studiava gli abiti stranieri che aveva indosso e la strana stanza dove si trovava. C'erano molti mobili, letti, tavoli, sedili, tutti su lunghe gambe sottili. Le pareti traslucide di un verde cupo erano ricoperte di disegni volutamente ingannevoli e disgreganti, uno dei quali nascondeva una porta a soffietto, un altro uno specchio a mezzobusto. Si fermò per guardarsi un momento. Era magro, segnato dal tempo e probabilmente più vecchio; non lo sapeva bene. Nel guardarsi si sentì curiosamente autocosciente. E cos'era questo disagio, questa mancanza di concentrazione? Cos'era successo, cos'era andato perduto? Si girò riprendendo a esaminare la stanza. C'erano vari oggetti strani lì attorno, e due di tipo familiare, benché stranieri nei particolari: una tazza su un tavolo e, accanto, un libro a fogli. Prese il libro. Nel cervello gli guizzò qualcosa che gli aveva detto Orry, ma subito scomparve. Il titolo non gli diceva nulla, benché i caratteri avessero precisa attinenza con l'alfabeto della Lingua dei Libri. Aprì l'oggetto e vi gettò uno sguardo. Le pagine di sinistra sembravano scritte a mano in chiare colonne di disegni meravigliosamente complessi, simboli sacramentali, ideogrammi, o segni stenografici. Le pagine di destra, anch'esse scritte a mano, erano invece scritte in lettere simili a quelle dei Libri, in lingua Galaktika. Un libro cifrato? Ma non aveva avuto il tempo di esaminare più di una parola o due che la porta a soffietto si aprì silenziosamente lasciando entrare nella stanza una persona: una donna.