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Clinica universitaria di Georgetown,

Washington, D.C.,

ore 07.45

«Tempo d’arrivo stimato di MedSTAR?» chiese il centralinista, seduto davanti a uno schermo a sensibilità tattile, con la cuffia senza fili.

Dalla radio dell’elicottero risposero: «In viaggio, a due minuti».

«Il pronto soccorso chiede un aggiornamento.» Tutti avevano sentito della sparatoria sulla Embassy Row. Erano scattati i protocolli della Homeland Security, con chiamate e allarmi in tutta la città.

«Secondo il personale medico dell’ambasciata, due morti sul colpo. Nazionalità sudafricana, tra cui l’ambasciatore. Ma anche due americani a terra.»

«Condizioni?»

«Uno deceduto, l’altro in condizioni critiche.»

14. IL SERRAGLIO

Sudafrica,

ore 13.55

Fiona era in ascolto sulla soglia, Taser alla mano. Sentì avvicinarsi delle voci, dal pianerottolo del primo piano. Il terrore l’attanagliò. Le riserve di adrenalina che l’avevano sostenuta nelle ultime ventiquattr’ore si stavano ormai esaurendo. Le tremavano le mani, il respiro era accelerato.

Il soldato legato e imbavagliato, quello che l’aveva importunata, era disteso dietro di lei. Aveva dovuto dargli un’altra scossa quando aveva cominciato a gemere.

Le voci erano sempre più vicine al suo nascondiglio.

Dov’era finito Gray? Era via da quasi un’ora.

Due persone si avvicinarono alla porta. Riconobbe una delle voci. Era quella stronza bionda che le aveva tagliato il palmo della mano: Ischke Waalenberg. Lei e il suo compagno parlavano in olandese, ma Fiona conosceva molto bene quella lingua.

«Le mie chiavi», stava dicendo Ischke. «Devo averle perse quando sono caduta.»

«Be’, cara zuster, adesso sei a casa e sei al sicuro.»

Zuster. Sorella. Quindi il suo compagno era il fratello.

«Cambieremo i codici, per precauzione», aggiunse l’uomo.

«E nessuno ha ancora trovato i due americani o la ragazzina?»

«I confini della tenuta sono sotto stretta sorveglianza. Siamo sicuri che siano ancora qui. Li troveremo. E grootvader ha una sorpresa.»

«Che tipo di sorpresa?»

«Una specie di assicurazione: nessuno lascerà la tenuta vivo. Non dimenticare che ha prelevato campioni di DNA a tutti, quando sono arrivati.»

Ischke rise, facendo gelare il sangue nelle vene a Fiona. Poi le voci si allontanarono.

«Vieni.» La voce del fratello andava scemando, mentre scendevano le scale verso il piano terra. «Grootvader ci vuole vedere.»

Le voci si fermarono in fondo alla scalinata. Pur premendo l’orecchio sulla porta, Fiona non riuscì a distinguere neanche una parola, ma sembrava che discutessero animatamente di qualche faccenda. In ogni caso, aveva sentito abbastanza.

Nessuno lascerà la tenuta vivo.

Che cosa avevano in mente? Le echeggiava ancora in testa la risata glaciale di Ischke, cupa e soddisfatta. Qualsiasi cosa stessero tramando, sembravano certi del risultato. Ma che cosa c’entravano i campioni di DNA?

Fiona sapeva che c’era soltanto un modo per scoprirlo. Non aveva idea di quando Gray sarebbe ritornato e temeva che il tempo stringesse. Doveva scoprire qual era il pericolo per poterlo evitare.

Mise in tasca il Taser e tirò fuori lo spolverino di piuma. Per quella impresa, avrebbe dovuto ricorrere a tutta la destrezza acquisita sulla strada. Aprì la porta e scivolò fuori dalla stanza. Non si era mai sentita tanto sola e in preda a una paura così assoluta. Ripensandoci, poggiò la mano sulla manopola della porta. Chiuse gli occhi e cercò di calmarsi, con una preghiera, non rivolta a Dio, ma a qualcuno che le aveva insegnato che il coraggio può assumere molte forme, compreso il sacrificio.

«Mutti…» implorò.

Le mancava la nonna adottiva, Grette Neal. I segreti del passato avevano ucciso la donna e nuovi segreti minacciavano lei e gli altri. Per avere anche la minima speranza di sopravvivere, doveva essere coraggiosa e altruista come Mutti.

Le voci al piano inferiore si allontanavano dalla scala.

Fiona camminò quel tanto che bastava per vedere le teste biondo platino dei gemelli. Ritornò a sentire le loro parole.

«Non far aspettare grootvader», disse il fratello.

«Scenderò tra un attimo. Voglio soltanto dare un’occhiata a Skuld, assicurarmi che sia tornata nella sua tana. Era piuttosto eccitata e temo che possa farsi del male da sola, per la frustrazione.»

«Si potrebbe dire la stessa cosa di te, mia dolce zuster.»

Fiona fece un altro passo. Il fratello accarezzò la sorella sulla guancia, con un’intimità che faceva rabbrividire.

Ischke si arrese a quel tocco, poi si ritrasse. «Non ci metterò molto.»

L’uomo annuì e si diresse verso l’ascensore. «Avviso io grootvader.»

Ischke prese un’altra direzione, verso il retro del palazzo.

Fiona la seguì, tenendo stretto il Taser, nella tasca. Se fosse riuscita a sorprendere quella stronza da sola, a farla parlare…

Scese i gradini di volata, poi, giunta quasi in fondo alla scala, rallentò, riprendendo un passo più controllato. Ischke stava percorrendo un corridoio centrale, che s’inoltrava nel cuore del palazzo.

Fiona la seguiva a distanza, con la testa bassa, tenendo lo spolverino di piuma tra le braccia, come una monaca avrebbe portato una Bibbia. Camminava a passi piccoli, come una qualunque domestica ritrosa. Ischke scese cinque gradini, passando davanti a un paio di sentinelle, poi prese un corridoio sulla sinistra.

Fiona raggiunse le sentinelle. Accelerò il passo, come una domestica in ritardo per qualche ignota mansione. Ma rimase comunque china, semisepolta dall’uniforme troppo larga.

Raggiunse la breve scalinata.

Le guardie la ignorarono, sfoggiando un comportamento impeccabile subito dopo il passaggio della signora. Fiona scese salterellando i cinque gradini. Una volta raggiunto il corridoio inferiore, lo trovò vuoto.

Si fermò.

Ischke era scomparsa.

Fu pervasa da una miscela di sollievo e terrore.

Forse sarebbe stato più saggio ritornare nel nascondiglio e aspettare…

Ricordò la risata glaciale di Ischke, poi sentì risuonare la voce della donna, acuta e vicina. Proveniva da una doppia porta ornamentale, in vetro e ferro, sulla destra.

Qualcosa aveva fatto arrabbiare Ischke.

Fiona si precipitò verso la porta e si mise in ascolto.

«La carne deve essere sanguinante! Fresca!» gridò Ischke. «Altrimenti ti metto là dentro con lei.»

Seguirono scuse biascicate e passi che si allontanavano di fretta.

Fiona appoggiò l’orecchio al vetro.

Un errore.

La porta si aprì di colpo, sbattendole sulla testa. Ischke si precipitò fuori, andando a cozzare contro Fiona. Imprecò, spingendola via con una gomitata.

Fiona reagì d’istinto, affidandosi alle capacità acquisite un tempo. Si districò e si chiuse a palla, appoggiandosi su un ginocchio e facendosi piccina. Non ebbe nemmeno bisogno di recitare molto.

«E guarda dove vai!» sbottò Ischke.

«Ja, maitresse», la adulò lei, chinandosi ancora di più.

«Fuori dai piedi!»

Fiona fu presa dal panico. Dove doveva andare? Ischke si sarebbe chiesta che ci facesse lì. I battenti erano ancora aperti, appoggiati al corpo della donna. Fiona si fece strada, avanzando china attraverso la soglia, per allontanarsi da Ischke.

Cercò con la mano il Taser nascosto in tasca, ma le ci volle un istante per lasciar andare ciò che aveva appena rubato dalla tasca della giacca di Ischke. Non l’aveva fatto di proposito, era stato soltanto un riflesso condizionato. Quel ritardo le costò caro. Prima che potesse liberare il Taser, Ischke imprecò e si allontanò a grandi passi. I pesanti battenti di ferro e vetro si chiusero, con un rumore metallico.