Anna avvicinò a sé il foglio con le rune. «Se Hugo aveva ragione, decifrare questo codice potrebbe rivelarsi essenziale per curare la nostra involuzione. La Campana ha già la capacità di rallentare la nostra malattia, ma, se riuscissimo a risolvere questo enigma, potrebbe darci una guarigione completa.»
«Prima di tutto dobbiamo accedere alla Campana dei Waalenberg», intervenne Lisa. «Poi potremo preoccuparci delle cure.»
«E Gray?» chiese Monk. «E la ragazza?»
Painter mantenne un’espressione impassibile. «Non sappiamo se è nascosto, se è stato catturato o se è morto. Per il momento, il comandante Pierce deve contare soltanto su se stesso.»
Il viso di Monk s’inasprì. «Posso intrufolarmi di nuovo là dentro, usando la mappa di Khamisi.»
«No, adesso dobbiamo rimanere uniti.» Painter si sfregò la testa, dietro l’orecchio destro, in preda a un dolore lancinante. I suoni divennero echi lontani e sentì montare la nausea.
Monk lo fissava. Lui fece un gesto, come a cancellare la preoccupazione del collega. Ma qualcosa nello sguardo di Monk suggeriva che non fosse preoccupato soltanto dei disturbi fisici del suo capo.
Painter stava prendendo le giuste decisioni? Le sue facoltà mentali erano intatte? La mano di Lisa si appoggiò sul suo ginocchio, come se intuisse la sua costernazione.
«Sto bene», borbottò lui, rivolto sia a se stesso sia a lei.
A prevenire qualsiasi ulteriore indagine, il tappeto appeso alla porta fu scostato, facendo penetrare la luce e il calore del sole. Chinandosi, Paula Kane entrò nella capanna buia, seguita da un anziano zulù in tenuta cerimoniale: penne, piume e una pelle di leopardo decorata con perline colorate. Anche se aveva circa sessantacinque anni, il suo viso era privo di rughe e sembrava scolpito nella pietra. Aveva la testa rasata e portava un bastone di legno guarnito di piume, ma anche un fucile antico, che sembrava più un paramento che un’arma funzionante.
Mentre si alzava, Painter lo riconobbe: era un vecchio fucile inglese a pietra focaia e anima liscia, un Brown Bess che risaliva alle guerre napoleoniche.
Paula presentò l’ospite: «Mosi D’Gana, capo zulù».
L’anziano parlava un inglese chiarissimo. «È tutto pronto.»
«Grazie per la sua assistenza», disse Painter, in tono formale.
Mosi annuì appena. «Ma non è per voi che prendiamo le lance. Abbiamo un credito coi voortrekker per Blood River.»
Paula spiegò di cosa si trattava. «Quando gli inglesi hanno scacciato i boeri olandesi da Città del Capo, questi si sono insediati nell’entroterra e sono entrati in contatto con le tribù indigene, xhosa, pondo, swazi e zulù. Nel 1838, lungo un affluente del Buffalo River, gli zulù furono traditi: fu un massacro. Il corso d’acqua è stato ribattezzato Blood River, fiume di sangue. Il voortrekker responsabile dell’assalto era Piet Waalenberg.»
Mosi sollevò la sua vecchia arma e la porse a Painter. «Noi non dimentichiamo.»
Painter non dubitava che quel fucile fosse stato usato in quella infame battaglia. Accettò l’arma, sapendo che il passaggio del vecchio fucile a pietra focaia suggellava un patto.
Con grande scioltezza, Mosi si mise a sedere a gambe incrociate. «Abbiamo molto da pianificare.»
Paula fece un cenno a Khamisi e tenne scostato il tappeto alla porta. «Il tuo furgone è pronto. Tau e Njongo stanno già aspettando.» Guardò l’orologio. «Dovrai sbrigarti.»
Il guardacaccia si alzò. Ognuno aveva un compito da svolgere prima che calasse la notte.
Painter incrociò lo sguardo di Monk. Ancora una volta, lesse la preoccupazione negli occhi del collega, ma non era per lui, era per Gray. Mancavano otto ore al tramonto, e non c’era nulla che potessero fare sino ad allora.
Gray era solo.
ore 12.05
«Tieni giù la testa», bisbigliò Gray a Fiona.
Avanzarono rapidamente verso la guardia in fondo al corridoio. Gray indossava un’uniforme mimetica, con tanto di stivali alla scudiera e berretto nero, con la visiera abbassata sugli occhi. La guardia che gli aveva prestato quella tenuta era priva di sensi, imbavagliata e legata, in un armadio delle camere da letto dei piani superiori.
Gray aveva preso anche la radio e l’auricolare. Le comunicazioni erano interamente in olandese, difficile da comprendere, ma quantomeno si facevano un’idea degli eventi.
Fiona era vestita da cameriera. L’uniforme era un po’ larga, ma era meglio nascondere la sua sagoma e la sua età. La maggior parte del personale della tenuta era costituita da indigeni, con la pelle più o meno scura, come era tipico nelle case degli afrikander. Le origini pakistane di Fiona e la sua carnagione si adattavano bene al contesto. Coi capelli nascosti in una cuffia, poteva essere scambiata per un’indigena. Per completare la messa in scena, camminava a passi piccoli, con atteggiamento remissivo, le spalle cascanti e la testa bassa.
Fino a quel momento i loro travestimenti non erano stati messi alla prova.
Si era diffusa la voce che Gray e Fiona erano stati avvistati nella giungla. Tutte le uscite del palazzo erano bloccate e la pattuglia era ridotta all’osso. Quasi tutte le forze di sicurezza erano impegnate a setacciare la foresta e i confini della tenuta.
Purtroppo, però, la sicurezza non era così esigua da lasciare accessibile una linea telefonica esterna. Poco dopo aver utilizzato la chiave di Ischke per rientrare nel palazzo, Gray aveva provato alcuni telefoni, ma per accedere alla linea bisognava passare attraverso una rete codificata. Qualsiasi tentativo di telefonare li avrebbe smascherati.
Perciò avevano poche opzioni. Potevano nascondersi, ma a che scopo? Chi sapeva quando o se Monk avrebbe raggiunto il mondo civile? Quindi dovevano essere più intraprendenti. Il piano era procurarsi innanzitutto una piantina del palazzo, ma per farlo dovevano infiltrarsi nella postazione principale della sicurezza. Le loro uniche armi erano la pistola che portava Gray e un Taser che Fiona aveva in tasca.
Davanti a loro, alla fine del corridoio, una sentinella era appostata sulla balconata, di guardia all’entrata principale, con un fucile automatico. Gray si avvicinò all’uomo alto e corpulento, con palpebre pesanti che lo facevano apparire viscido e meschino. Gli fece un cenno e proseguì verso le scale, tallonato da Fiona.
Andò tutto bene.
Poi l’uomo disse qualcosa in olandese. Era oltre le capacità di comprensione di Gray, ma quelle parole suonavano sconce e terminarono in una bassa risata gutturale.
Girandosi per metà, Gray vide la guardia dare un pizzicotto sul sedere a Fiona, mentre con l’altra mano la prendeva per un braccio.
Mossa sbagliata.
Fiona si voltò verso l’uomo. «Vaffanculo, segaiolo.»
La gonna della ragazza gli sfiorò il ginocchio. Un lampo blu le attraversò la tasca e colpì la coscia dell’uomo. Il suo corpo s’inarcò, mentre emetteva un gorgoglio smorzato.
Gray lo afferrò prima che cadesse. Mentre era ancora in preda alle convulsioni tra le sue braccia, Gray lo trascinò dal pianerottolo a una delle stanze laterali. Lo lasciò cadere a terra, lo colpì in testa col calcio della pistola e cominciò a imbavagliarlo e legarlo. «Perché l’hai fatto?»
Fiona gli girò attorno e gli pizzicò il sedere, forte.
«Ehi!» esclamò lui, alzandosi e girandosi di scatto.
«Ti è piaciuto?» chiese Fiona.
Messaggio ricevuto. Comunque Gray l’avvertì: «Non posso continuare a legare questi bastardi».
Fiona si alzò con le braccia conserte. Lo sguardo, per quanto furente, era anche impaurito.
Lui non poteva biasimarla per il suo nervosismo. Si asciugò il sudore dalla fronte. Forse era meglio che si nascondessero, sperando che qualcuno li venisse a salvare.
La radio di Gray gracchiò. Qualcuno aveva notato la loro aggressione vicino alle scale? Cercò di dare un senso a quel garbuglio di suoni. «… ge’vangene… portare all’ingresso principale…»