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«Non so», disse Lodola. «È stata un’azione folle, ma forse… non so. Che cosa potevi fare, più che mettere la sbarra alle porte? In fondo, è come se per tutta la nostra vita non facessimo altro che mettere la sbarra alle porte. È la casa in cui viviamo.»

Si guardarono attorno, e videro le pareti di pietra, i pavimenti di pietra, il focolare di pietra, la finestra piena di sole della Fattoria delle Querce, la casa dell’agricoltore Selce.

«La ragazza, la donna che hanno ucciso», disse Lodola, guardando Tenar con l’aria di chi la sa lunga. «Era la stessa.»

Tenar annuì.

«Uno di loro mi ha detto che era incinta. Di quattro o cinque mesi.»

Tutt’e due rimasero in silenzio.

«In trappola», ripeté Tenar.

Lodola raddrizzò la schiena e serrò le labbra. «È la paura», disse poi. «Perché abbiamo tanta paura? E perché permettiamo loro di dirci che abbiamo paura? Di che cosa hanno paura, loro?» Prese le calze che stava rammendando, guardò se c’era qualche altro buco, rimase in silenzio per qualche istante e infine chiese: «Perché hanno paura di noi?»

Tenar continuò a filare senza dire niente.

In quel momento arrivò Therru, di corsa, e Lodola la salutò: «Ma è la mia bambina! Vieni a darmi un bacio!»

Therru la abbracciò. «Chi sono gli uomini che hanno preso?» chiese con la sua voce roca, guardando Lodola e Tenar.

Tenar smise di filare e disse lentamente:

«Uno è Faina. L’altro è un uomo chiamato Lince. Il ferito si chiama Tinca». Fissò con attenzione la faccia di Therru e vide il fuoco, vide la cicatrice arrossarsi. «La donna che hanno ucciso si chiamava Senny, mi pare.»

«Senini», sussurrò la bambina.

Tenar annuì.

«L’hanno uccisa loro?»

Tenar annuì di nuovo.

«Girino mi ha detto che sono stati qui.»

Tenar annuì di nuovo.

La bambina si guardò attorno, come avevano fatto le due donne, ma la sua espressione era di assoluta ribellione: lei non vedeva pareti.

«Li ucciderete?»

«Forse li impiccheranno.»

«Per ucciderli?»

«Sì.»

Therru annuì, con indifferenza. Uscì e tornò a giocare con i figli di Lodola, che si erano riuniti attorno al pozzo.

Le due donne rimasero silenziose. Continuarono a rammendare e a filare, senza parlare, nella casa di Selce, accanto al fuoco.

Dopo qualche tempo, Lodola chiese: «E quell’uomo, il pastore, quello che li ha seguiti fin qui, dov’è finito? Falco, hai detto che si chiama?»

«È di là che dorme», spiegò Tenar, indicando la porta interna.

«Ah», disse Lodola.

La ruota dell’arcolaio fece qualche giro. «Lo conosco da parecchio tempo.»

«Ah. L’hai conosciuto a Re Albi, suppongo.»

Tenar annuì. La ruota continuò a girare.

«Per seguire quei tre e per attaccarli con un forcone, al buio, ci vuole un certo coraggio. E non si tratta di un giovanotto, vero?»

«No», rispose Tenar. Dopo qualche istante, proseguì: «È stato malato, e cercava lavoro. Perciò l’ho fatto parlare con Rivochiaro, perché lo prendesse alla fattoria. Ma Rivochiaro è convinto di poter fare tutto da solo, e l’ha mandato con i pastori, sulle montagne. Ieri sera stava appunto ritornando dai pascoli alti».

«Allora, conti di tenerlo qui.»

«Se lui accetta di rimanere.»

Dal villaggio giunse ancora un altro gruppo, che volle sentire la storia di Goha e raccontare a sua volta le proprie prodezze nella grande cattura degli assassini, guardare il forcone e confrontare le punte con le tre ferite sul petto dell’uomo chiamato Tinca, e ripetere ancora una volta la storia. Tenar fu lieta di veder arrivare la fine di quella lunga giornata, di chiamare Therru e di chiudere la porta.

Alzò la mano per tirare il chiavistello. Poi la abbassò e si impose di non sbarrare la porta.

«Sparviero è nella tua stanza», le disse Therru, che era andata nella dispensa a prendere le uova.

«Scusa. Mi sono dimenticata di dirti che era qui.»

«Lo conosco», disse Therru, lavandosi mani e faccia nel lavandino. E, quando arrivò Ged, spettinato e con gli occhi gonfi, corse da lui per abbracciarlo.

«Therru», disse Ged, prendendola in braccio. Lei lo strinse per qualche istante, poi lo lasciò.

«Conosco l’inizio della Creazione», gli disse con orgoglio.

«E me la canteresti?» rispose Ged. Guardò di nuovo Tenar per chiederle il permesso di sedersi, poi si accomodò accanto al fuoco.

«Posso solo recitarla.»

Lui fece un cenno affermativo e attese, con aria piuttosto grave. La bambina recitò:

La creazione dalla distruzione,

la fine dall’inizio,

chi sa distinguerli con certezza?

Noi conosciamo solo la porta tra di loro

in cui entriamo quando ce ne andiamo.

Tra gli esseri che ogni volta ritornano,

il più antico di tutti, il Guardiano della Soglia, Segoy…

La voce della bambina era come il fruscio di una spazzola di metallo su una lama, come le foglie secche, come il sibilo della fiamma. Arrivò alla fine della prima strofa:

Poi dalla schiuma sorse la fulgida Éa.

Ged fece un cenno d’assenso, con aria grave. «Brava», disse.

«Ieri sera», mormorò Tenar. «L’ha imparata ieri sera. Mi pare che sia passato un anno intero.»

«Posso imparare anche il resto», affermò Therru.

«Lo imparerai sicuramente», la incoraggiò Ged.

«Prima, comunque, devi pulire la zucca», disse Tenar, e la bambina obbedì.

«Che cosa devo fare?» chiese Ged.

«Bisogna riempire d’acqua quella pentola e metterla sul fuoco.»

Ged annuì; prese la pentola e andò a riempirla alla pompa.

Prepararono la cena, la consumarono e sparecchiarono.

«Ridimmi la Creazione fin dove la sai», disse Ged, più tardi, quando lui e Therru si sedettero accanto al focolare, «e proseguiremo insieme.»

La bambina recitò la seconda strofa una volta con lui, una volta con Tenar e una volta da sola.

«A dormire», disse Tenar.

«Non hai parlato a Sparviero del re», osservò la bambina.

«Parlagliene tu», le rispose Tenar, divertita da quella scusa per non andare a letto.

Therru si girò verso Ged. La sua faccia, sfregiata e intatta, cieca e veggente, era concentrata, rossa. «Il re è arrivato su una nave. Aveva la spada. Mi ha dato il delfino d’osso. La sua nave volava con il vento, ma io stavo male, perché Faina mi aveva toccata. Ma il re mi ha toccato nello stesso punto, e il segno è sparito.» Gli mostrò il braccio sottile. Tenar rimase a bocca aperta. Si era dimenticata del segno.

«Un giorno voglio volare fin dove abita il re», Therru rivelò a Ged. Lui annuì. «Lo farò», ripeté. «Tu lo conosci?»

«Sì, lo conosco. Insieme abbiamo compiuto un lungo viaggio.»

«Dove?»

«Dove il sole non sorge e le stelle non tramontano. E poi siamo ritornati indietro.»

«Hai volato?»

Ged scosse la testa. «Io posso solo camminare», mormorò.

La bambina rifletté su quelle parole; poi, soddisfatta, disse: «Buonanotte», e andò nella propria stanza. Tenar la seguì, ma la bambina le disse che non c’era bisogno di cantarle la ninna-nanna. «Posso recitare la Creazione anche al buio», le disse. «Le due strofe.»

Tenar fece ritorno in cucina e si sedette di fronte a Ged, dall’altra parte del focolare.

«Come cambia!» disse. «Non riesco a tenerle dietro. Sono troppo vecchia per allevare un’altra figlia. E lei… Lei mi obbedisce, ma solo perché è lei a volerlo.»

«È l’unica giustificazione dell’obbedienza», le fece notare Ged.

«Ma quando le verrà in mente di disobbedire, come potrò fare? In lei c’è qualcosa di selvatico. A volte è la mia Therru, e a volte è qualcosa d’altro, qualcosa di inafferrabile. Ho chiesto a Edera se poteva prenderla come apprendista. L’aveva suggerito Faggio. Ma Edera ha detto di no. ‘Perché?’ le ho chiesto. ‘Perché ho paura di lei’, mi ha risposto… Ma tu non hai paura di lei. E Therru non ha paura di te. Tu e Lebannen siete gli unici uomini da cui si lascia toccare. E io ho lasciato che quell’uomo… Faina… non posso parlarne. Oh, che stanchezza! Non riesco più a ragionare.»