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Con un sospiro, si sedette accanto al fuoco e per qualche tempo non fece assolutamente nulla.

Poi sentì bussare. Erano Rivochiaro e Ged… no, Falco, doveva chiamarlo… fermi sulla soglia. Il vecchio si dava grandi arie perché aveva molte storie da raccontare, Ged invece era silenzioso e aveva un’aria tranquilla, ed era ancora infagottato nel suo sudicio giaccone da pastore. «Entrate», disse Tenar. «Vi servo un po’ di tè. Che notizie ci sono?»

«Hanno cercato di scappare a Valmouth, ma gli uomini di Kahedanan, le guardie, sono arrivati e hanno scoperto subito che c’era qualcuno nella capanna di Ciliegia», disse Rivochiaro, agitando il pugno.

«È riuscito a scappare?» chiese Tenar, inorridita.

«Solo gli altri due», disse Ged. «Non quello.»

«Hanno trovato un corpo — con tutte le ossa rotte — nel vecchio macello, dietro la Collina Rotonda vicino a Kahedanan, e così una decina di loro si sono fatti nominare guardie e li hanno seguiti. Questa notte hanno cercato in tutti i villaggi, e stamattina, prima ancora che facesse chiaro, li hanno trovati nella capanna di Ciliegia. Erano mezzo assiderati.»

«Allora, è morto?» chiese Tenar, stupita.

Ged si era tolto il pesante giaccone e adesso sedeva accanto alla porta, per sfilarsi i gambali di cuoio. «Lui è vivo», disse, con il suo solito tono grave. «È con Edera, adesso. L’ho messo sulla carriola e l’ho portato giù questa mattina. C’era gente per strada ancor prima che facesse giorno, e davano la caccia a tutt’e tre. Hanno ucciso una donna, sui monti.»

«Che donna?» sussurrò Tenar.

Fissava negli occhi Ged, e questi le rivolse un fugace cenno d’assenso.

Rivochiaro, però, voleva essere lui a raccontare, e così riprese, alzando la voce: «Ho parlato con alcune di quelle guardie e mi hanno detto che i quattro si erano accampati dietro Kahedanan, per rubacchiare quello che trovavano, e la donna scendeva al villaggio a mendicare, piena di lividi e di scottature. Gli uomini la mandavano a mendicare, e lei diceva alla gente che, se tornava senza niente, la picchiavano ancora di più. La gente allora le chiedeva: perché ritorni? Ma se lei non fosse ritornata, sarebbero venuti a cercarla, e non l’avrebbero lasciata più andare. Ma poi hanno esagerato e l’hanno uccisa a forza di botte, e allora hanno lasciato il corpo nel vecchio macello, in un punto dove c’è ancora puzza di carogna, così speravano che nessuno se ne accorgesse. Poi sono scappati, e sono arrivati qui, proprio questa notte. E perché non hai chiamato aiuto, Goha? Falco dice che li ha trovati qui, che cercavano di entrare in casa, quando gli è arrivato addosso. Io ti avrei sentito, o Prunella, che forse ha l’orecchio più acuto del mio. Le hai già raccontato tutto?»

Tenar scosse la testa.

«Allora, vado a raccontarglielo», disse il vecchio, lieto di poter essere il primo a darle una notizia così importante. Si avviò verso la porta, ma si girò ancora per dire a Ged: «Non avrei mai pensato che tu fossi tanto abile con il forcone!» Gli diede una pacca affettuosa sul ginocchio e si allontanò, ridendo.

Ged si tolse i gambali e le scarpe piene di fango, li posò sulla soglia, poi, con ai piedi solo le calze, si recò a scaldarsi al fuoco. Calzoni e giubba e camicia di lana tessuta in casa: un tipico pastore di Gont, con l’aria guardinga, il naso aquilino e gli occhi scuri e limpidi.

«Arriverà gente», le disse. «Per raccontarti di nuovo tutto quello che è successo, e per sentire ancora una volta ciò che è successo qui. Hanno preso i due che erano scappati e li hanno chiusi in una cantina vuota, e ci sono quindici uomini che li sorvegliano e almeno venti bambini che cercano di vedere che cosa fanno…» Soffocando uno sbadiglio, si sgranchì le braccia e le spalle e con un’occhiata chiese a Tenar il permesso di sedersi accanto al fuoco.

Lei gli porse la sedia. «Devi essere esausto», mormorò.

«Ho dormito un poco, questa notte. Non riuscivo a rimanere sveglio.» Sbadigliò di nuovo. Guardò Tenar, per vedere come stava.

«Era la madre di Therru», disse lei, con un filo di voce.

Ged annuì. Sedeva un po’ piegato in avanti, con le mani appoggiate sulle gambe, come faceva sempre Selce, e guardava le fiamme. In alcune cose i due uomini erano simili, in altre erano completamente diversi, come una pietra sepolta sotto la terra e un uccello che vola nel cielo. Tenar aveva un peso al cuore, le facevano male le spalle, ed era ancora confusa da presentimenti e dolori, dal ricordo della paura: si sentiva stordita.

«Il nostro uomo è dalla strega», disse Ged. «Legato, nel caso che si senta troppo in forma. Con le ferite piene di ragnatele e di incantesimi per fermare l’emorragia. Lei ha detto che vivrà fino al giorno dell’impiccagione.»

«Impiccagione?»

«Lo stabilirà il tribunale del re, adesso che si riunisce di nuovo. O lo impiccheranno o lo manderanno ai lavori forzati.»

Lei scosse la testa, aggrottò la fronte.

«Non vorrai che lo rimettano in libertà, Tenar», disse dolcemente Ged, osservandola con attenzione.

«No.»

«Devono essere puniti», continuò, senza smettere di guardarla.

«’Puniti.’ È quello che diceva lui. Punire la bambina. È cattiva. Deve essere punita. Punire me, perché l’ho presa. Perché sono…» Dovette fare uno sforzo per parlare. «Non voglio una punizione. Non doveva andare così. Preferirei che tu l’avessi ucciso!»

«Ho fatto del mio meglio», si giustificò Ged.

Dopo qualche istante, lei rise, in modo un po’ sforzato. «Sì, certamente.»

«Pensa come sarebbe stato facile», riprese Ged, continuando a fissare la brace. «Quando ero un mago, avrei potuto mettere su di loro un incantesimo di legame, fin da quando li ho visti per la prima volta sulla strada, prima che se ne rendessero conto. Avrei potuto portarli a Valmouth come un gregge di pecore. O questa notte, qui a casa tua, pensa che fuochi artificiali avrei potuto fare! Non avrebbero neppure capito che cosa li colpiva.»

«Difatti non l’hanno ancora capito», osservò Tenar.

Ged la guardò. Aveva negli occhi una leggera e incontenibile espressione di trionfo.

«Vero», disse. «Non l’hanno capito.»

«’Abile con il forcone’», mormorò Tenar.

Ged fece un enorme sbadiglio.

«Perché non vai a dormire? La seconda stanza. A meno che tu preferisca stare in compagnia. Vedo arrivare Lodola e Margherita, accompagnate da qualcuno dei loro figli.» Nell’udire le voci si era alzata a guardare dalla finestra.

«Farò come dici», rispose Ged, e si allontanò.

Lodola e il marito, Margherita (la moglie del fabbro) e altri amici del villaggio arrivarono nel corso della giornata per raccontare di nuovo tutto quello che era successo, e per sentire ancora una volta ciò che era successo lì, come aveva detto Ged. Tenar trovò che la loro compagnia la faceva rivivere, la allontanava a poco a poco dalla costante presenza del terrore provato quella notte, finché riuscì a pensarci come a una storia ormai conclusa, e non come a una vicenda che la coinvolgeva ancora e che avrebbe continuato a coinvolgerla.

Era proprio quello che anche Therru doveva imparare a fare, ma non con gli eventi di una notte: con tutta la sua vita.

Quando gli altri se ne furono andati, Tenar confidò a Lodola: «Quel che mi fa irritare con me stessa è di essere stata una stupida».

«Te l’avevo detto, di sbarrare sempre le porte.»

«No, non solo per quello.»

«Ti capisco», rispose Lodola.

«Pensavo che mentre cercavano di entrare, sarei potuta correre da Prunella e Rivochiaro… magari portando con me anche Therru. Oppure, sarei potuta andare io nella capanna a prendere il forcone, o la roncola per potare gli alberi: ha un manico lungo due braccia ed è affilata come un rasoio; la tengo come la teneva Selce. Perché non l’ho fatto? Perché non ho fatto qualcosa? Mi sono limitata a chiudermi dentro, quando sapevo fin dall’inizio che la cosa era inutile. Se non ci fosse stato lui… Falco… Io non ho fatto altro che intrappolare me stessa e Therru. Alla fine sono uscita fuori con il coltello, e mi sono messa a gridare, ma solo perché ero come impazzita. Non credo che sarebbe bastato a metterli in fuga.»