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«Devo andare a prenderlo nel ripostiglio. Oh, c’è Prunella! Finalmente! Come state? E Rivochiaro? Come sono andate le cose? Avete venduto gli agnelli?»

A cena, quella sera, erano in nove. Alla debole luce della sera, nella cucina dal pavimento di pietra, seduta alla lunga tavola della fattoria, Therru cominciò a sollevare un poco la testa, e rivolse qualche parola agli altri bambini; ma era ancora impaurita, e quando scese il buio si girò in modo da tenere sotto sorveglianza la finestra.

Solo dopo che Lodola e i figli di questa furono usciti, e Melina ebbe cantato la ninna-nanna a Therru per farla addormentare, solo allora, mentre lei e Prunella lavavano i piatti, Tenar chiese di Ged. Aveva aspettato che Lodola e Melina non fossero presenti, per non dover dare troppe spiegazioni. Non aveva accennato alla presenza di Ged a Re Albi, e non voleva più parlare di quel luogo. Quando pensava a Re Albi, le pareva che la mente si offuscasse.

«L’altro mese, è venuto l’uomo che vi ho mandato, per aiutarvi nel lavoro?»

«Oh, me n’ero dimenticata!» esclamò Prunella. «Falco, quello con i graffi sulla faccia?»

«Sì», rispose Tenar, «Falco.»

«Oh, sì, adesso è sul monte delle Sorgenti Calde, sopra Lissu, con le pecore di Serry. È venuto qui, e ha detto che l’avevi mandato tu, ma non c’era lavoro da fare, qui, visto che Rivochiaro e io badavamo alle pecore, io facevo il formaggio e c’erano già Tiff e Sis ad aiutarci quando ce n’era bisogno. Io mi scervellavo per trovargli un’occupazione, e Rivochiaro ha detto: ‘Chiedi all’uomo di Serry, il suo fattore di Kahedanan, forse hanno bisogno di qualcuno nei pascoli della montagna’. Allora quel vostro Falco è andato, l’hanno preso, e l’indomani è partito. Sì, Rivochiaro gli ha detto: ‘Chiedi all’uomo di Serry’, lui l’ha fatto, e lo hanno preso. Tornerà con il gregge, questo autunno. È in cima alla Lunga Scarpata, sopra Lissu, nei pascoli alti. Credo che l’abbiano preso per le capre. Una persona gentile. Pecore o capre, non so quali preferisse. Spero che non ti dia fastidio, Goha, se non l’abbiamo tenuto qui, ma ti assicuro che non c’era lavoro, con noi tre e con Sis che ha portato dentro il raccolto. Lui ha detto che faceva il pastore al suo paese, dall’altra parte della montagna, un posto sopra Armouth, anche se diceva di non conoscere bene le pecore. Però, può darsi che l’abbiano preso perché hanno le capre.»

«Penso di sì», disse Tenar. Era sollevata e insieme delusa. Era lieta di sapere che si era sistemato, ma avrebbe voluto trovarlo alla Fattoria delle Querce.

Cercò tuttavia di consolarsi: era sufficiente essere a casa, e forse era un bene che Ged non ci fosse, a ricordarle le sofferenze, i sogni, le magie e i terrori di Re Albi, tutte cose che lei preferiva lasciarsi alle spalle. Adesso lei era a casa, e quella era proprio la sua casa, con le pareti e i pavimenti di pietra, le finestre con i vetri a piccoli riquadri, da cui si scorgevano le querce illuminate dalla luce delle stelle, le stanze silenziose e ordinate. Quella sera rimase sveglia a lungo. La figlia dormiva nella stanza accanto, la stanza dei bambini, con Therru, e Tenar dormiva nel suo letto, nel letto di suo marito, da sola.

Poi dormì. Al suo risveglio, non ricordò di avere fatto alcun sogno.

Dopo qualche giorno alla fattoria, l’estate trascorsa sul Grande Precipizio le passò di mente, come se tutto fosse successo in un luogo lontano, in un passato remoto. Nonostante le asserzioni di Prunella che alla fattoria non c’era lavoro, Tenar trovò un mucchio di cose da fare: tutto quel che non era stato fatto durante l’estate, e tutto quel che doveva essere fatto nei campi e nella casera. Lavorava dall’alba al tramonto, e se per caso aveva qualche minuto libero, filava la lana o cuciva per Therru. Il vestito rosso venne terminato, e fece un figurone, con un grembiule bianco per la festa e uno arancione scuro per tutti i giorni. «Sei bellissima!» esclamò Tenar, nel suo orgoglio di sarta, quando la bambina lo provò.

Therru si girò dall’altra parte.

«No, sei davvero bellissima», le disse allora Tenar, in tono diverso. «Ascoltami, Therru, vieni qui. Hai delle cicatrici, brutte cicatrici, perché ti hanno fatto una cosa brutta, malvagia. La gente vede le cicatrici. Ma vede anche te, e tu non sei le tue cicatrici. Tu non sei brutta. Tu non sei malvagia. Tu sei Therru, e sei bellissima. Tu sei Therru, che è in grado di lavorare, di camminare, di danzare meravigliosamente, con il tuo bell’abito rosso.»

La bambina la ascoltò senza mostrare alcuna espressione; il lato liscio, intatto, del suo viso era immobile come quello nascosto dalla cicatrice.

Poi guardò le mani di Tenar e infine, sfiorandogliele con le piccole dita: «È un bellissimo vestito», disse con la sua voce debole e rauca.

Quando Tenar rimase sola, a raccogliere i ritagli di stoffa rossa, senti il bisogno di piangere. Aveva fatto bene a cucirle il vestito, e aveva detto alla bambina la verità. Ma il giusto e il vero non erano sufficienti. Attorno a essi c’era un vuoto, un abisso. L’amore — il suo amore per Therru e quello della bambina per lei — gettava un ponte su quell’abisso, un ponte fragile come una ragnatela, ma l’amore non poteva né riempire né cancellare quell’abisso. Non c’era niente che potesse farlo. E la bambina lo sapeva quanto lei.

Giunse il giorno dell’equinozio, con un bel sole autunnale che splendeva tra la nebbia. Nelle foglie delle querce si affacciarono i primi toni ramati. Mentre puliva i secchi del latte, con la finestra e la porta spalancate che lasciavano entrare l’aria frizzante, Tenar pensò che quel giorno, a Havnor, veniva incoronato il suo giovane re. I signori e le dame si sarebbero presentati con abiti azzurri, verdi e rossi, ma lui si sarebbe vestito di bianco, pensò Tenar. Sarebbe salito alla Torre della Spada, montando sugli stessi scalini su cui erano montati lei e Ged. La corona di Morred gli sarebbe stata posata sulla testa. Lui si sarebbe voltato, al suono delle trombe, e si sarebbe seduto sul trono che era rimasto vuoto per tanti anni, e avrebbe guardato il suo regno con quei suoi occhi scuri, che conoscevano il dolore e la paura. «Governa bene, governa a lungo», gli augurò mentalmente. «Povero ragazzo!» E pensò anche: «Doveva davvero essere Ged a incoronarlo. Avrebbe fatto bene ad andare».

Ma Ged pascolava le pecore del ricco fattore (o erano capre?) nei pascoli in cima al monte. Quell’anno, l’autunno era caldo, asciutto, dorato, e per riportare le pecore in pianura avrebbero aspettato che lassù, sui monti, cadesse la prima neve.

Quando si recava al villaggio, Tenar non mancava mai di andare a trovare Edera nella sua casupola sulla strada del mulino. L’amicizia sorta a Re Albi tra lei e Muschio l’aveva spinta a conoscere meglio la strega, ammesso che riuscisse a vincere i suoi sospetti e la sua gelosia. Sentiva la mancanza di Muschio, ancor più di quanto non avesse sentito la mancanza di Lodola quando era a casa di Ogion; aveva imparato molte cose da lei, e aveva finito per volerle bene; inoltre Muschio aveva dato a lei e a Therru qualcosa di cui avevano bisogno. Ma Edera, anche se era più pulita e più attendibile di Muschio, non aveva intenzione di rinunciare alla sua antipatia per Tenar. Accolse i suoi tentativi di fare amicizia con il disprezzo che — lo ammise la stessa Tenar — probabilmente si meritavano. «Tu, va’ per la tua strada; io vado per la mia», le diceva la strega, in tutti i modi tranne che a parole; e Tenar obbediva, anche se ora, quando andava a trovarla, trattava Edera con grande rispetto. Per molti anni l’aveva trattata male e l’aveva disprezzata, pensò, e doveva farne ammenda. E la strega, che evidentemente concordava con lei, accettava i suoi tributi senza piegarsi e senza ammorbidirsi.

Verso la metà dell’autunno, il mago Faggio passò per la valle, chiamato da un ricco contadino perché gli curasse la gotta. Si soffermò più del solito nei villaggi della Valle di Mezzo, e passò un pomeriggio alla Fattoria delle Querce, per visitare Therru e per parlare con Tenar. Volle sapere tutto il possibile sulla morte di Ogion: era stato allievo di uno degli allievi di Ogion, e aveva molta ammirazione per il mago di Gont. Tenar scoprì che parlare di Ogion le era meno difficile che parlare delle altre persone di Re Albi, e gli disse tutto quel che poté. Quando lei ebbe finito, il mago le chiese con cautela: «E l’Arcimago… è poi venuto?»