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«Mia madre. E con lei c’è Therru». Ma non cercò di farsi avanti in mezzo alla folla, neppure quando un ufficiale della nave scese sul molo per invitare il vecchio Relli a bordo, a cantare per il re. Melina rimase in attesa con gli altri: vide che il re riceveva i notabili di Valmouth, e sentì Relli cantare per lui. Guardò il re che salutava gli ospiti, perché la nave avrebbe ripreso subito il mare, diceva la gente, prima di notte, per ritornare a Havnor. Le ultime a scendere furono Therru e Tenar. Il re salutò in maniera ufficiale, guancia contro guancia, tutt’e due e si chinò ad abbracciare Therru. «Ah!» esclamò la folla sul molo. Il sole tramontava in una nebbia d’oro, e stendeva sulla baia una lunga scia dorata, quando la donna e la bambina, tenendosi alla ringhiera, scesero dalla passerella. Tenar aveva un grosso zaino e una sacca, Therru nascondeva la faccia tra i capelli. La passerella venne ritirata, i marinai si arrampicarono sulle sartie, gli ufficiali diedero gli ordini, e il Delfino virò staccandosi dal molo. Solo allora Melina si fece strada fra la folla.

«Salve, madre», disse a Tenar, e lei le rispose: «Salve, figlia». Si baciarono, e Melina prese in braccio Therru. «Come sei cresciuta!» esclamò. «Sei il doppio di quando ti ho visto l’ultima volta. Venite, venite a casa con me.»

Ma quella sera, nella bella casa del marito, il mercante, Melina era un po’ intimidita dalla presenza della madre. La guardò molte volte, di sottecchi, pensierosa. «Non avevo mai dato peso alla cosa, sai, mamma», le disse accompagnandola nella sua stanza da letto, «tutto quel che è successo, la Runa della Pace, l’Anello che hai portato a Havnor. Sembrava una storia, una di quelle che raccontano le ballate. Roba di mille anni fa! Ma sei stata proprio tu, vero?»

«È stata una ragazza di Atuan», rispose Tenar. «Mille anni fa. In questo momento, sento che potrei dormire per mille anni.»

«Va’ a dormire, allora.» Melina fece per allontanarsi, poi si girò e disse, con la lampada in mano: «Baciare!»

«Piantala», rispose Tenar.

Melina e il marito riuscirono a tenerla con loro un paio di giorni, ma poi Tenar volle ritornare alla fattoria. Così, Melina accompagnò lei e Therru lungo la sponda del placido, argenteo Kaheda. L’estate cedeva ormai il posto all’autunno: il sole era ancora caldo, ma il vento si faceva più fresco. Le foglie avevano un aspetto stanco, opaco, e i campi erano coperti di stoppie, o vi si stava facendo il raccolto.

Melina notò che Therru era più robusta, e che camminava a lungo senza stancarsi.

«Avresti dovuto vedere quanto camminava a Re Albi», le disse Tenar, «prima che…» S’interruppe, perché aveva deciso di non raccontare niente alla figlia. Non voleva che si preoccupasse.

«Che cosa è successo?» chiese Melina, con una tale decisione che Tenar dovette arrendersi e rispondere a bassa voce:

«Uno di quelli».

Therru, con le sue gambe lunghe e il vestito ormai troppo corto, era corsa davanti a loro e raccoglieva le more dai cespugli a fianco della strada.

«Il padre?» chiese Melina, disgustata all’idea.

«Lodola dice che il padre dovrebbe essere un certo Tinca. Quello che ho visto io era più giovane: è lo stesso che è andato a chiamare Lodola. Si chiama Faina. Vagabondava dalle parti di Re Albi, e poi, per disgrazia, ci siamo imbattute in lui a Porto Gont. Il re lo ha mandato via, e adesso io sono qui e lui è là, e la cosa è finita.»

«Ma Therru si è spaventata», osservò Melina, con preoccupazione.

Tenar annui.

«E perché eravate andate a Porto Gont?»

«Oh, be’. Quel tale, Faina, lavorava per uno… il mago del castello di Re Albi, che è offeso con me.» Cercò di pensare al nome del mago, ma non ci riuscì; le venne in mente soltanto tuaho, che nella lingua di Karg indicava un albero, ma Tenar non avrebbe saputo dire quale.

«E allora?»

«E allora mi è sembrato meglio ritornare a casa.»

«Ma perché quel mago se l’è presa con te?» volle sapere Melina.

«Perché sono una donna, soprattutto.»

«Bah», fece Melina. «Vecchie storie.»

«Giovani storie, nel mio caso», ribatté Tenar.

«Peggio ancora», commentò la figlia. «Comunque, qui in città nessuno ha più visto i genitori, se si possono ancora chiamare così. Ma se sono ancora da queste parti, non mi fiderei a stare da sola alla fattoria.»

È bello trovare un atteggiamento materno nella propria figlia, e comportarsi come se la figlia fossimo noi. Perciò Tenar disse, alzando le spalle: «Oh, starò benissimo!»

«Almeno, prendi un cane.»

«Ci avevo già pensato», rispose Tenar. «Qualcuno ha dei cuccioli, al villaggio? Lo chiederò a Lodola, quando passeremo da lei.»

«Non un cucciolo, madre. Un cane.»

«Sì, ma giovane, in modo che Therru possa giocarci…» implorò.

«Sì, un bel cagnolino, che correrà a fare le feste ai ladri», disse Melina sorridendo alla madre. Era rossa in viso e gli occhi grigi brillavano.

Quando giunsero al villaggio, era quasi mezzogiorno. Lodola accolse Tenar e Therru con una festa di abbracci, baci, domande e cose da mangiare. Anche il marito di Lodola — un uomo taciturno — e altri del villaggio si fermarono a salutare Tenar, che cominciò ad assaporare le gioie del ritorno a casa.

Lodola e i due figli più piccoli — ne aveva sette -, un maschio e una femmina, li accompagnarono alla fattoria. I bambini, naturalmente, conoscevano Therru da quando Lodola l’aveva portata a casa, ed erano abituati a vederla, ma sulle prime si comportarono timidamente, dopo due mesi di separazione. Con loro, e anche con Lodola, la bambina rimase passiva, chiusa in se stessa, come nel tremendo periodo iniziale.

«È esausta, confusa da tutti questi viaggi. Ma si riprenderà presto: sta crescendo benissimo», disse Tenar, rivolta a Lodola, ma Melina non le permise di cavarsela così a buon mercato.

«Uno di loro si è fatto vivo e le ha spaventate», spiegò Melina. E, a poco a poco, la figlia e l’amica si fecero raccontare la storia da Tenar, quel pomeriggio, mentre aprivano le finestre della casa fredda, piena di polvere e che sapeva di chiuso, pulivano, davano aria ai giacigli, scuotevano la testa nel vedere che le cipolle avevano messo il germoglio, riempivano la dispensa e mettevano l’acqua sul fuoco per preparare la cena. Dovettero farsi raccontare la vicenda, però, una parola alla volta. Tenar non riusciva a parlare del mago e di quel che aveva fatto: una fattura, disse vagamente, o forse aveva mandato Faina a cercarla. Ma quando parlò del re, non incontrò difficoltà con le parole.

«E allora è arrivato lui, il re!… come una lama di spada, e Faina era confuso e impaurito… e io credevo che fosse Scintilla! L’ho davvero creduto, per un momento, tanto ero fuori di me.»

«Be’», disse Melina, «non c’è niente di strano, perché Lucciola ti ha scambiata per la regina madre, quando eravamo sul molo, a guardarti approdare in tutta la tua gloria. E lei lo ha baciato, Zia Lodola. Ha baciato il re, come se niente fosse. Pensavo che poi baciasse anche il mago, ma non l’ha fatto.»

«Certo che non l’ha baciato, che idea. Di che mago si trattava?» chiese Lodola, con la testa infilata nella credenza. «Dove tieni la farina, Goha?»

«Dove hai messo la mano ora. Un mago di Roke, venuto a cercare un nuovo Arcimago.»

«Qui da noi?»

«Perché no?» chiese Melina. «L’ultimo che hanno avuto era di Gont, no? Ma non hanno perso molto tempo a cercarlo. Sono tornati subito a Havnor, una volta sbarazzatisi di mia madre.»

«Che maniera di esprimerti.»

«Il mago ha detto che cercava una donna», spiegò Tenar alle sue due compagne. «Una donna di Gont. Ma ho avuto l’impressione che la cosa gli desse fastidio.»

«Un mago che cerca una donna? Be’, questa è davvero nuova», commentò Lodola. «Pensavo che la farina avesse fatto le camole, ormai, ma vedo che è ancora buona. Vi preparo qualche frittella? Dov’è l’olio?»