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Poi il tessitore la portò a vedere i maiali, una bella coppia, ben ingrassata in vista degli insaccati di quell’autunno. Risero della goffaggine di Erica come portatrice di avanzi. Tenar gli disse che le occorreva un pezzo di tela per fare un vestito alla bambina: Ventaglio sorrise soddisfatto e le mostrò una bella pezza di lino, mentre la giovane donna che gli faceva da apprendista, e che pareva avere preso da lui anche la scarsa socievolezza, oltre che la professione, continuava ininterrottamente a lavorare al telaio, con aria irritata.

Tornando a casa, Tenar pensò a Therru seduta a quel telaio. Sarebbe stato un lavoro decoroso. Il lavoro era noioso, sempre lo stesso, ma la tessitura era comunque un lavoro onorevole e nelle mani di alcuni una nobile arte. E non era insolito il fatto che i tessitori fossero un po’ schivi, e che molti di loro non si sposassero, chiusi tutto il giorno a fare il loro lavoro: tuttavia erano rispettati. E lavorando in casa, seduta al telaio, Therru non avrebbe dovuto mostrare la faccia. Ma la mano rattrappita? Con quella poteva spingere la spola, preparare l’ordito?

E si sarebbe dovuta nascondere per tutta la vita?

Ma che cosa doveva fare? «Sapendo come dev’essere la sua vita…»

Tenar cercò di pensare ad altro. Al vestito che le avrebbe fatto. I vestiti della figlia di Lodola erano di ruvida stoffa fatta in casa, brutti come il peccato. Lei, invece, poteva tingere metà della pezza, magari di giallo, o addirittura di rosso con la robbia della palude. E poi fare un grembiule o una sopravveste bianca, con una gala. Perché mai Therru doveva sempre rimanere nascosta in casa, al telaio, e non avere mai una gala al vestito? La tela era sufficiente per un’altra camicia, e forse per un altro grembiule, se l’avesse tagliata attentamente.

«Therru!» chiamò, avvicinandosi alla casa. Quando era uscita, Erica e Therru erano nel recinto delle capre. La chiamò di nuovo, perché voleva mostrare alla bambina la tela e parlarle del vestito. Erica arrivò da dietro la capanna, portando con sé Sippy, legata a una corda.

«Dov’è Therru?»

«Con te», rispose la ragazza, con una tale tranquillità che Tenar si guardò attorno, alla ricerca della bambina, prima di capire che Erica non aveva idea di dove si trovasse, e che aveva semplicemente espresso a voce una sua speranza.

«Dove l’hai lasciata?»

Erica non ne aveva idea. Non aveva mai tradito la fiducia di Tenar, in precedenza; sembrava aver capito che Therru doveva essere sempre tenuta d’occhio, come Sippy. Ma forse era la stessa Therru ad averlo intuito, e a tenersi vicino a lei? Tenar pensò che fosse questa la spiegazione e, non ricevendo indicazioni da Erica, cominciò a chiamare la bambina, ma non ricevette risposta.

Finché poté, evitò di avvicinarsi al burrone. Il giorno del loro arrivo aveva spiegato a Therru che non doveva mai andare da sola nel prato molto ripido, sotto la casa, o lungo il ciglio del Precipizio, a nord, perché con un occhio solo è difficile farsi un’esatta idea delle distanze. La bambina aveva obbedito. Obbediva sempre. I bambini dimenticano. Ma Therru non dimenticava. Però, poteva avvicinarsi al ciglio senza accorgersene. Probabilmente, comunque, era andata a casa di Muschio. Certo. La sera prima c’era andata da sola, e oggi c’era andata di nuovo. Senza dubbio.

Non c’era. Muschio non l’aveva vista.

«La troverò, cara», le assicurò la strega: ma invece di avviarsi lungo il sentiero della foresta per cercarla, come Tenar aveva sperato, Muschio prese a legarsi i capelli per lanciare un incantesimo di ritrovamento.

Tenar tornò di corsa in casa di Ogion, continuando a chiamare la bambina. E questa volta andò a guardare anche nei prati sotto la casa, con la speranza di vedere la piccola figura della bambina giocare tra i massi. Ma vide solo il mare, scuro e corrugato, al di là del ciglio, e sentì un tuffo al cuore: quasi i sensi le vennero meno.

Si diresse verso la tomba di Ogion e fece qualche passo lungo il sentiero della foresta, chiamando di nuovo la bambina. Quando uscì dagli alberi, vide che il gheppio cacciava nello stesso punto dove Ged si era fermato a osservarlo. Questa volta però si gettò in picchiata, colpì, e si alzò con qualche piccola creatura fra gli artigli. Tornò rapidamente nella foresta. Dà da mangiare ai piccoli, pensò Tenar. Ogni genere di pensieri le passò per la mente, pensieri vividi e precisi, quando giunse dove aveva steso la biancheria ad asciugare. Adesso era asciutta; bisognava portarla in casa prima di sera. Doveva cercare meglio nella zona più vicina alla casa, nella capanna e nell’ovile. Era colpa sua. Era successo perché lei aveva pensato di fare di Therru una tessitrice, chiudendola in casa tutto il giorno, al buio a lavorare, di farla diventare rispettabile. Anche se Ogion le aveva detto: «Insegnale tutto!» Anche se sapeva che, quando non si può correggere un difetto, bisogna trascenderlo. Anche se sapeva che la bambina era affidata a lui e che lei aveva mancato al suo dovere, aveva tradito il suo compito, l’aveva perduta, aveva perso l’unica sua ricchezza.

Dopo avere cercato in tutte le altre costruzioni, entrò nella casa e guardò di nuovo nella nicchia e sotto il letto. Si versò un bicchiere d’acqua, perché aveva la bocca asciutta come sabbia.

Dietro la porta, i tre bastoni — quello di Ogion e gli altri due — si mossero nell’ombra e uno dei bastoni disse: «Qui».

La bambina era seduta in quell’angolo buio: tutta rannicchiata su se stessa, era piccola come un cagnolino, la testa piegata sulla spalla, braccia e gambe schiacciate contro il corpo, l’unico occhio chiuso.

«Uccellino, passerotto, fiammella mia, che cosa è successo? Che cosa ti hanno fatto?»

Tenar cullò tra le braccia il piccolo corpo, ora rigido come pietra. «Perché mi hai fatto prendere uno spavento come questo? Perché ti sei nascosta a me? Oh, ero così spaventata!»

Cominciò a piangere, e le lacrime caddero sulla faccia della bambina.

«Oh, Therru, Therru, non nasconderti a me!»

Per i muscoli serrati corse come un fremito, e lentamente si rilasciarono. Therru si mosse, e all’improvviso si strinse a Tenar e tuffò la faccia nell’incavo tra il seno e la spalla, si strinse disperatamente a lei. Però, la bambina non pianse. Non piangeva mai: forse il fuoco le aveva bruciato tutte le lacrime, non ne aveva più. Emise un lungo gemito.

Therru continuò a cullarla. Lentamente, la stretta disperata si allentò. La bambina appoggiò la testa sul petto di Therru.

«Dimmi», mormorò la donna e la bambina rispose, con un sussurro rauco:

«È venuto qui».

Il primo pensiero di Therru fu per Ged, ma la sua mente, veloce come la paura, scartò quell’idea, pensò a quel che Ged significava per lei — Tenar fece un sorriso torto, per un attimo — e proseguì la caccia. «Chi è venuto qui?»

Nessuna risposta, solo un brivido di paura.

«Un uomo con il berretto di cuoio», disse Tenar, cercando di parlare con calma.

Therru annuì.

«Quello che abbiamo visto per la strada, mentre venivamo qui», aggiunse Tenar.

Nessuna risposta.

«Quei quattro uomini, quelli che mi hanno fatto arrabbiare, ricordi? Era uno di loro.»

Si rammentò che Therru, in quell’occasione, aveva tenuto la testa bassa, per nascondere la parte ustionata, e, come faceva in presenza di estranei, non aveva mai sollevato lo sguardo.

«Lo conosci, Therru?»

«Sì.»

«Da quando… da quando vivevi nell’accampamento vicino al fiume?»

Un cenno d’assenso.

Tenar la strinse tra le braccia.

«È venuto qui?» chiese, e tutta la paura provata fino ad allora si trasformò in collera, una collera che bruciava dentro di lei come una verga di fuoco. Le sfuggì una specie di risata — «Aah!» — e le tornò in mente Kalessin, la risata di Kalessin.

Ma per un semplice essere umano, per una donna, non era così semplice. Doveva trattenere il fuoco. E doveva consolare la bambina.