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All’entrata del porto, una baia a mezzaluna poco profonda, lasciò cadere il vento incantato e fermò la barca, che si arrestò dondolando sulle onde. Poi chiamò il drago: — Usurpatore di Pendor, vieni a difendere il tuo tesoro!

La sua voce non giunse lontana, nel frastuono dei frangenti che battevano sulla spiaggia cinerea; ma i draghi hanno l’udito fine. Poco dopo, uno salì svolazzando da una rovina scoperchiata della città, come un immenso pipistrello nero, con le ali sottili e il dorso crestato, e volteggiando nel vento del nord venne verso Ged. Il cuore di Ged si gonfiò alla vista dell’essere che per la sua gente era un mito, e lui rise e gridò: — Va’ a dire al Vecchio di venire, verme del vento!

Perché quello era uno dei giovani draghi, messi al mondo lì anni addietro da un drago femmina venuto dallo stretto Occidentale, che aveva deposto la sua covata di grandi uova coriacee (come dicono che facciano i draghi femmina) in qualche stanza soleggiata e sventrata della torre ed era volato via di nuovo, lasciando il Vecchio Drago di Pendor a vegliare sui piccoli usciti dal guscio come lucertole terribili.

Il giovane drago non replicò. Non era molto grosso, forse era lungo come una nave a quaranta remi, ed era sottile come un verme nonostante l’ampiezza delle nere ali membranose. Non aveva ancora raggiunto le dimensioni di un drago adulto, e non ne aveva né la voce né l’astuzia. Si avventò verso Ged sulla piccola barca ondeggiante, aprendo le lunghe fauci dentate mentre scendeva in picchiata dall’aria come una freccia: perciò a Ged bastò legargli le ali e le membra con un secco incantesimo per farlo piombare in mare come una pietra. E il grigio mare si chiuse su di lui.

Due draghi simili al primo si levarono dalla base della torre più alta. Come il primo, si avventarono contro Ged: lui li catturò entrambi, li scagliò in mare e li affogò; e non aveva ancora alzato il suo bastone di mago.

Poi, dopo un po’, dall’isola ne vennero altri tre. Uno era molto più grosso, e lanciava spire di fuoco dalle fauci. Due si avventarono al volo verso di lui, sbattendo rumorosamente le ali, ma quello grande volteggiò e gli venne alle spalle, rapidissimo, per bruciare lui e la barca con l’alito di fuoco. Nessun incantesimo legante poteva prenderli tutti e tre, poiché due venivano da nord e uno da sud. Nell’istante in cui se ne accorse, Ged operò un incantesimo di metamorfosi, e tra un respiro e l’altro s’innalzò in volo dall’imbarcazione, in forma di drago.

Spiegando le immense ali e protendendo gli artigli, incontrò i due lanciati a capofitto, carbonizzandoli col fuoco, e poi si voltò verso il terzo, che era più grande di lui, e ugualmente armato di fiamme. Nel vento, sopra le grige onde, volteggiarono, sbatterono le mascelle, si tuffarono, risalirono, fino a quando il fumo ondeggiò intorno a loro, illuminato di rosso dal bagliore delle bocche ardenti. All’improvviso Ged volò verso l’alto, e l’avversario lo inseguì. A metà volo Ged-drago sollevò le ali, si arrestò, e scese in picchiata come un falco, con gli artigli protesi verso il basso, colpendo l’altro e urtandolo al collo e al fianco. Le nere ali sbatterono freneticamente e il nero sangue di drago piovve in gocce dense nel mare. Il drago di Pendor si liberò e s’involò a bassa quota, incerto, verso l’isola, dove si nascose strisciando in un pozzo o in una caverna tra le macerie della città.

Subito Ged riprese il suo aspetto e il suo posto sulla barca, poiché era pericoloso conservare quella forma di drago più a lungo del necessario. Le sue mani erano annerite dall’ardente sangue del rettile, e aveva la testa ustionata: ma ora questo non aveva importanza. Attese di aver ripreso fiato e poi gridò: — Sei ne ho visti, cinque ne ho uccisi, dicono che sono nove: venite fuori, vermi!

Per lungo tempo nulla si mosse, nessuna voce risuonò sull’isola: c’era solo il rumore delle onde che battevano sulla riva. Poi Ged si accorse che la torre più alta cambiava lentamente forma, gonfiandosi da un lato come se estroflettesse un braccio. Temeva la magia dei draghi, perché i vecchi draghi sono molto potenti e astuti e usano una magia che è uguale e diversa da quella degli uomini; ma dopo un momento comprese che non era un trucco del drago ma solo uno scherzo della sua vista. Ciò che aveva creduto una parte della torre era la spalla del drago di Pendor, che si snodava e si alzava lentamente.

Quando fu eretto, la sua testa scagliosa, crestata di aculei e munita di una lingua trifida, si levò più alta della torre diroccata, e le zampe anteriori poggiavano sulle macerie della città sottostante. Le scaglie erano nero-grigiastre, e riflettevano la luce del giorno come pietre spezzate. Era scarno come un segugio e immenso come una collina. Ged lo guardò sgomento. Nessun canto, nessuna leggenda poteva preparare la mente a quella vista. Per poco non fissò negli occhi il drago: sarebbe stato perduto, se l’avesse fatto, perché nessuno può guardare un drago negli occhi. Distolse lo sguardo dai verdi occhi oleosi che lo scrutavano, e tenne davanti a sé il bastone che adesso gli sembrava un fuscello.

—  Avevo otto figli, piccolo mago — disse la gran voce asciutta del drago di Pendor. — Cinque sono morti, uno è morente: basta. Non conquisterai il mio tesoro uccidendoli.

—  Non voglio il tuo tesoro.

Fumo giallo uscì sibilando dalle narici del drago: era la sua risata.

—  Non ti piacerebbe venire a riva a vederlo, piccolo mago? Vale la pena di ammirarlo.

—  No, drago. — I draghi sono imparentati col vento e il fuoco, e non combattono volentieri sul mare. Finora quello era stato il vantaggio di Ged, e lui voleva conservarlo; ma la fascia d’acqua tra lui e i grandi artigli grigi non gli sembrava più di grande utilità.

Era difficile non guardare quegli occhi verdi e penetranti.

—  Sei un mago molto giovane — disse il drago. — Non sapevo che gli uomini pervenissero tanto giovani al potere. — Parlava, come Ged, nella Vecchia Favella, che è tuttora la lingua dei draghi. Sebbene l’uso della Vecchia Favella vincoli un uomo alla verità, per i draghi non è così. È la loro lingua, e possono usarla per mentire, distorcendo le parole vere per falsi fini, irretendo l’ascoltatore incauto in un labirinto di parole-specchio, ognuna delle quali riflette la verità e nessuna delle quali conduce a qualcosa. Ged ne era stato avvertito spesso; e quando il drago parlò, lui ascoltò con diffidenza, armato di dubbi. Ma le parole sembravano semplici e chiare: — È per chiedere il mio aiuto che sei venuto qui, piccolo mago?

—  No, drago.

—  Eppure io potrei aiutarti. Presto avrai bisogno d’aiuto, contro ciò che ti dà la caccia nell’oscurità.

Ged restò muto.

—  Cos’è che ti dà la caccia? Dimmi il suo nome.

—  Se potessi dargli un nome… — Ged s’interruppe.

Il fumo giallo si attorse sopra la lunga testa del drago, scaturendo dalle narici che erano due rotondi pozzi di fuoco.

—  Se tu potessi dargli un nome forse potresti dominarlo, piccolo mago. Forse io potrei dirti il suo nome, se lo vedessi da vicino. E verrà vicino, se tu attenderai nei pressi della mia isola. Verrà dovunque tu vada. Se non vuoi che ti si avvicini dovrai fuggire e fuggire e continuare a fuggire. Eppure ti seguirà. Ti piacerebbe conoscere il suo nome?

Ged rimase di nuovo in silenzio. Non sapeva immaginare come il drago sapesse dell’ombra che lui aveva scatenato, né come potesse conoscere il nome dell’ombra. L’arcimago aveva detto che l’ombra non aveva nome. Eppure i draghi hanno la loro sapienza: appartengono a una razza più antica dell’uomo. Pochi uomini possono intuire ciò che un drago sa e come lo sa, e quei pochi sono i signori dei draghi. Per Ged, una cosa sola era vera: anche se poteva darsi che il drago dicesse la verità, anche se poteva darsi che fosse in grado di rivelargli la natura e il nome dell’ombra, così conferendogli il potere su di lei… anche se diceva la verità, lo faceva esclusivamente per i propri fini.