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Pechvarry credette che anche il mago fosse morto. Sua moglie piangeva, e lui era completamente sconvolto. Ma la strega aveva una certa conoscenza della magia e delle vie che un vero mago può percorrere, e comprese che Ged, sebbene giacesse freddo ed esanime, non doveva essere trattato come un morto ma come un uomo malato o in trance. Ged fu portato a casa e venne lasciata con lui una vecchia, perché vedesse se dormiva per destarsi o dormiva per sempre.

Il piccolo otak era nascosto fra le travi del tetto, come faceva sempre quando entrava qualche estraneo. Rimase là mentre la pioggia batteva sulle pareti e il fuoco si smorzava e la notte — passando lentamente — lasciava la vecchia intenta a sonnecchiare accanto al focolare. Poi l’otak scese cautamente e si avvicinò a Ged che giaceva rigido e immobile sul letto. Cominciò a leccargli le mani e i polsi, a lungo, pazientemente, con la linguetta secca e bruna come una foglia. Accovacciandoglisi accanto alla testa gli leccò la tempia, la guancia sfregiata, e, delicatamente, gli occhi chiusi. E adagio adagio, sotto quel tocco lieve, Ged si svegliò. Si svegliò senza sapere dov’era stato e dov’era, e cos’era la fioca luce grigia nell’aria intorno a lui, che era la luce dell’alba ritornata al mondo. Poi l’otak si acciambellò come al solito accanto alla sua spalla e si addormentò.

Più tardi, quando Ged ripensò a quella notte, comprese che se nessuno l’avesse toccato mentre giaceva perduto nel mondo degli spiriti, se nessuno l’avesse richiamato in un modo o nell’altro, forse sarebbe stato perduto davvero. Era solo la saggezza istintiva della bestia che lambisce il compagno sofferente per confortarlo, eppure in quella saggezza Ged vide qualcosa di affine al suo potere, qualcosa che era profondo quanto la magia. Da quel momento si convinse che saggio è l’uomo che non si isola mai dalle altre creature viventi, sappiano parlare o no, e negli anni seguenti si sforzò a lungo di scoprire ciò che si può imparare in silenzio dagli occhi degli animali, dal volo degli uccelli, dai grandi gesti lenti degli alberi.

Aveva compiuto indenne, per la prima volta, il passaggio e il ritorno che solo un mago può compiere a occhi aperti e che neppure il più grande dei maghi può realizzare senza rischio. Ma era tornato alla paura e all’angoscia. L’angoscia era per il suo amico Pechvarry, la paura era per se stesso. Ora sapeva perché l’arcimago aveva temuto di mandarlo lontano, sapeva cos’aveva oscurato e obnubilato la visione del suo futuro. Perché era la tenebra stessa ciò che l’aveva atteso, la cosa senza nome, l’essere che non apparteneva al mondo, l’ombra che lui aveva scatenato o creato. In spirito, al muro di confine tra la morte e la vita, l’aveva atteso per quei lunghi anni. L’aveva trovato là, finalmente. Adesso si sarebbe messa sulle sue tracce, cercando di avvicinarsi a lui, di prendere per sé la sua forza, di risucchiare la sua vita e di ammantarsi della sua carne.

Poco dopo sognò la cosa, come un orso senza testa né muso. Gli parve che si aggirasse a tentoni intorno alle pareti della casa, cercando la porta. Non aveva più fatto un simile sogno dopo essere stato guarito dalle ferite infertegli dall’ombra. Quando si svegliò era debolissimo e intirizzito, e le cicatrici sul volto e sulla spalla dolevano e tiravano.

Incominciò un triste periodo. Quando sognava l’ombra o anche solo vi pensava, provava sempre quella fredda paura: la ragione e il potere defluivano da lui, lasciandolo intontito e smarrito. S’infuriava per la propria vigliaccheria, ma era inutile. Cercò qualche protezione, ma non c’era: la cosa non era di carne, non era viva e non era spirito, non aveva nome, non aveva altro essere che quello datole da lui stesso: un potere terribile al di fuori delle leggi del mondo illuminato dal sole. Sapeva soltanto che era attratta verso di lui e che avrebbe cercato di compiere il proprio volere per suo mezzo, essendo una sua creatura. Ma non sapeva in quale forma poteva venire, poiché non aveva ancora una sua forma, né come sarebbe venuta né quando.

Eresse tutte le barriere magiche che conosceva intorno alla sua casa e intorno all’isola su cui viveva. Quei muri d’incantesimo dovevano venire sempre rinnovati, e ben presto si accorse che se avesse speso tutta la sua forza in quelle difese non sarebbe stato più utile agli isolani. Cos’avrebbe potuto fare, preso fra due nemici, se fosse giunto un drago da Pendor?

Sognò ancora: ma questa volta, nel sogno, l’ombra era in casa, accanto alla porta, e cercava di afferrarlo nell’oscurità, e bisbigliava parole che lui non comprendeva. Si svegliò atterrito, e fece fiammeggiare nell’aria la luce incantata, rischiarando ogni angolo della casetta fino a quando non vide più ombre. Poi aggiunse legna sulle braci del focolare, e si sedette nella luce del fuoco ad ascoltare il vento dell’autunno che frusciava sul tetto di paglia e gemeva tra i grandi alberi spogli; e rifletté a lungo. Un’antica collera s’era destata nel suo cuore. Non avrebbe sopportato quell’attesa impotente, standosene prigioniero su un’isoletta a mormorare inutili incantesimi di chiusura e di protezione. Eppure non poteva fuggire dalla trappola: avrebbe tradito la fiducia degli isolani e li avrebbe abbandonati indifesi al drago. C’era una sola cosa da fare.

Il mattino seguente scese tra i pescatori all’ancoraggio principale di Torning Bassa; cercò il capo degli isolani e gli disse: — Devo andarmene. Sono in pericolo, e metto in pericolo anche voi. Devo andare. Perciò ti chiedo il permesso di recarmi a finire i draghi di Pendor, in modo da svolgere la mia missione presso di voi per poter partire liberamente. Se fallirò, fallirei comunque quando venissero qui, ed è meglio saperlo prima che dopo.

L’isolano lo guardò a bocca aperta. — Nobile Sparviero — disse, — là ci sono nove draghi!

—  Otto sono ancora giovani, dicono.

—  Ma il vecchio…

—  Te l’ho detto, devo andarmene da qui. Ti chiedo il permesso di liberarvi prima del pericolo dei draghi, se mi sarà possibile.

—  Come vuoi tu, signore — disse cupamente il capo isolano. Tutti coloro che ascoltavano pensavano che il loro giovane mago fosse pazzo o temerario, e scuri in volto lo videro partire, prevedendo di non avere mai più sue notizie. Alcuni insinuarono che intendeva semplicemente ritornare al mare Interno passando per Hosk, lasciandoli nei guai; altri, tra cui Pechvarry, sostennero che era impazzito e che cercava la morte.

Da quattro generazioni, tutte le navi regolavano la rotta in modo da tenersi lontane dalle spiagge dell’isola di Pendor. Nessun mago era mai andato là a combattere il drago, perché l’isola non era su una rotta di traffico e i suoi signori erano stati pirati, razziatori di schiavi e guerrafondai, odiati da tutti gli abitanti delle parti sudoccidentali di Earthsea. Perciò nessuno aveva cercato di vendicare il signore di Pendor dopo che il drago era comparso all’improvviso da occidente, piombando su di lui e sui suoi uomini che banchettavano nella torre, soffocandoli con le fiamme che gli uscivano dalla bocca e cacciando in mare tutta l’urlante popolazione della città. Invendicata, Pendor era stata lasciata al drago, con tutte le sue ossa e le sue torri e i gioielli rubati a principi morti da molto tempo sulle coste di Peln e di Hosk.

Ged sapeva benissimo tutto questo, e anche di più, perché da quando era giunto a Torning Bassa aveva pensato e ripensato a tutto ciò che aveva imparato sul conto dei draghi. Mentre guidava la piccola imbarcazione verso occidente — senza remare e senza usare le arti marinaresche che gli aveva insegnato Pechvarry, ma navigando con il vento magico nella vela e con un incantesimo posto sulla prua e nella chiglia perché non deviassero — attendeva di vedere l’isola morta levarsi dall’orlo del mare. Voleva procedere velocemente e perciò usava il vento magico, perché temeva ciò che stava dietro di lui più di quanto gli stava davanti. Ma col passare delle ore la sua impazienza colorata di paura si trasmutò in una specie di gioia rabbiosa. Finalmente cercava il pericolo di sua volontà; e più gli si avvicinava, più si sentiva sicuro che, almeno questa volta, in quell’ora che forse precedeva la sua morte, era libero. L’ombra non osava seguirlo nelle fauci di un drago. Le onde correvano crestate di bianco sul mare grigio, e le nubi grige volavano sopra di lui spinte dal vento del nord. Si diresse rapidamente a ovest, con la vela gonfiata dal vento magico, e giunse in vista delle rocce di Pendor, delle silenziose vie della città, delle torri sventrate e cadenti.