Изменить стиль страницы

«Non capisci,» chiese lui, sottovoce, «che è tutto inutile?»

«Cosa?» chiesi. «Pensavo che mi volessi sposare. Non capisco.»

«No,» disse lui. «No, non capisci, vero?»

«Ma mi è piaciuto moltissimo,» obiettai. «A te no?»

«Oh, sì,» disse. «Mi è piaciuto avere te, mia ooma, e a te è piaciuto avere il mio corpo, il mio nuovo corpo irreale. Io ho amato te, e tu hai amato il mio guscio.»

«Oh, Hatta,» dissi.

Rimanemmo in silenzio, a lungo.

«Ti amo,» disse poi.

«Lo so.»

«E tu ami il mio corpo,» disse lui.

«Sì,» risposi. «E… Hatta, penso che sei così terribilmente caro e derisann e…»

«E non mi ami, vero? Solo l’esterno.»

«Sì,» dissi io.

E Hatta pianse in silenzio.

E io ridiventai tosky.

«Hatta!» urlai. «Senti, non sopporto anche questo, dopo tutto il resto. Sono in un tale caos, non posso sopportare anche il tuo caos. Davvero, mi dispiace, ma se non la finisci diventerò zaradann.»

Hatta si scusò, si alzò, disse che avrebbe pagato l’altra metà della tariffa matrimoniale e se ne andò, lasciandomi l’avioplano.

E quando lo rividi di nuovo, aveva quattro braccia e le scaglie. Povero, povero Hatta. Se almeno avesse potuto imparare a odiare.

2.

Dopo l’episodio con Hatta prenotai la Distorsione dei Sensi. Credo che alla Commissione fosse arrivata notizia delle mie condizioni insolitamente isteriche, perché non dovetti aspettare molto. Mi mandarono persino una piccola nave aerea azzurra e rosa, tutta allegra e gaia, e suonarono una musica gaia e allegra.

«Ah, sì,» dissero quando mi videro e mi condussero via, tenendomi per mano.

Così mi distesi nel soffice cubicolo peloso e attesi di diventare un fiore, e l’ultimo pensiero che ricordo fu: Dove prendono queste pelli? Sono di animali del deserto? E giurai a me stessa di smantellare la stanza delle pellicce, a casa mia.

E poi mi trovai nella foresta immobile, al mattino, sotto un cielo pallido, ed io ero una pianta altissima, e crescevo, con la mente piena di pensieri vegetali. Ricevevo la luce del sole e sentivo che le mie molecole le trasformavano in cellule verdi. Era molto riposante. Fui un fiore per millenni, e avrebbe dovuto farmi bene. Dopo essere stata un fiore, diventai una montagna, e fu una cosa grandiosa. In effetti, credo che mi sentissi un po’ come Assule. Di sicuro, pensai pensieri del tipo che, ci scommetto, pensava lui. Io sono antica e resistente, sono una cosa divina, sono l’eternità. Ignoravo i venti e la sabbia che mi logoravano, la pioggia che mi erodeva, il sole caldo che mi asciugava. Più tardi fui un lago, azzurro e increspato, miglia e miglia, ed è meraviglioso essere così lungo e ampio, e consapevole di ogni spanna di te stesso. Continuavo a scrollarmi dolcemente, per scacciare il sole dalla mia pelle, e ad incoraggiare le mie piante acquatiche, perché crescessero.

Mi svegliai e all’inizio fui sorpresa di scoprire che avevo due braccia e due gambe e i capelli, e tutto il noiosissimo resto. Provai l’impulso, che a quanto pare è molto comune dopo la Distorsione dei Sensi, di correre al Limbo a dire «voglio un corpo lunghissimo, azzurro, increspato». Ma loro mi prevennero. Cominciarono a ronzarmi intorno e mi fecero un’iniezione nutriente, e mi incoraggiarono a scrivere poesie con una macchina, sulle mie esperienze.

Thinta venne a prendermi: ho l’impressione che le avessero suggerito che doveva venire, e lei naturalmente, siccome era devota e penosamente ligia al dovere, arrivò con il suo avioplano rosa così sicuro. Oh, sì, quel giorno era molto prudente. Non avresti mai detto che anche lei era precipitata sul Monumento a Zeefahr, non molto tempo prima, proprio come Hergal che ormai ci aveva fatto l’abitudine.

«Facciamo dei vestiti d’acqua,» cinguettò Thinta.

Andammo a prendere il materiale necessario e le istruzioni, e vagabondammo per millenni lungo file di ticchettanti macchine a uncinetto, macchine che lavoravano a maglia l’acciaio, e lanaquadro, su cui puoi dipingere, con i raggi elettrici, paesaggi e altre cose da sbalordire te ed i tuoi amici. Io volevo vedere quel che avrebbe fatto Thinta, e ovviamente rubai degli aghi a fuoco: lei rimase solo un po’ imbarazzata e finse di non aver visto niente. Beh, era vero, tutti cercavano di assecondarmi. Mi passarono per la mente mille possibilità di far diventare tutti zaradann, ma ero troppo stufa per realizzarle.

Mangiammo il quinto pasto all’Abisso di Fuoco, e poi andammo a farci i nostri vestiti nel sole mortalmente perfetto del Parco degli Elci, circondate da tutte quelle foglie di giada. All’improvviso, le foglie mi ricordarono il drago della Torre di Giada, e tutti gli altri animali di Quattro BAA, e poi Lorun, e ricominciai di nuovo a piangere. Le mie lacrime si impiastricciarono sull’abito d’acqua e lo rovinarono.

«Oh,» continuava a implorare Thinta, «oh, non piangere più, ooma.» Riuscii a smettere solo perché vidi che lei era veramente sconvolta. Non so bene se fosse per simpatia o per imbarazzo. Probabilmente per tutte e due le ragioni.

Facemmo il sesto pasto e Thinta pagò con entusiasmo e poi mi fece una sorta di predicozzo, a bordo della nave celeste dove stavamo mangiando.

«Sai,» esordì, «tutti hanno dei momenti sciocchi.»

«Davvero?» chiesi, poco incoraggiante.

«Lo sai benissimo, ooma,» disse Thinta. «Guarda me, e il fatto che vorrei essere un felino, e avere il pelame e le fusa che, per fortuna, la Commissione ha avuto il buon senso di non darmi. Adesso mi rendo conto che ero ridicola e infatti ne rido. Ah! Ah!» La sua risata era un po’ forzata?

«Non credo che tu ne rida davvero,» le dissi, implacabile. «Credo che tu finga di ridere, mentre in realtà sei furiosa perché non puoi cominciare a farmi le fusa.»

«Oh, andiamo,» disse Thinta, mostrandomi irritata per quanto può apparire lei, il che significa che aveva solo un’aria perplessa. L’unica volta che l’avevo vista veramente arrabbiata era stato quando le avevano rifiutato il meccanismo per fare le fusa. «Comunque,» concluse, «quel che volevo dire è che ognuno può superare qualunque cosa.»

«Capisco,» dissi io.

«Oh, sì, è proprio vero, ooma.»

«Forse tutti possono riuscirci,» dissi io. «Ma forse non dovrebbero.»

Thinta non seppe rispondermi. Ci si provò, ma non ci riuscì. Beh, non potevo rispondermi da sola, vi pare?

Comunque cercai veramente di tornare a vivere come una volta: ma era come una tunica d’una taglia sbagliata. Non mi andava più bene. Se mai mi era andata bene. Andai a fare acquisti e rubai, feci delle corse con la sfera e sul fuoco, andai a imprecare contro il Museo della Robotica, e sposai di nuovo Hergal, anche se capii che non si godette molto il nostro pomeriggio. Era troppo impaurito dall’idea che mi mettessi a piangere sulla sua spalla, anche se, per riguardo, non lo feci. Andai al Palazzo delle Dimensioni e non mi spaventai neppure, diventai solo completamente tosky, anche se credo che quello fu il risultato migliore che avessi mai ottenuto.

Finalmente pensai alle Stanze del Sogno.

Andai nella versione del Quarto Settore, che ha nubi di porpora e cubicoli fluttuanti, e impiegai circa ottanta split a programmare il robot, per essere sicura di avere una fantasia perfettamente groshing. Questa volta non provavo neppure un senso di colpa… di questo, almeno, il mio Q-R dal tappeto d’acqua era riuscito a liberarmi, indirettamente.

Ed eccomi là: ero la danzatrice famosa, fantasticamente erotica di un’antica tribù del deserto. Eravamo stati catturati da un’altra tribù più potente e trascinati in catene nel deserto, ridotti in shiavitù. La notte giacevamo sotto le stelle fredde del deserto, fissando le grandi tende blu, e la tenda più grande di tutte, che apparteneva al capo tribù. Non l’avevo mai visto, ma evidentemente lui aveva visto me e aveva saputo della mia fama di danzatrice; all’inizio del sogno, aveva chiesto che mi presentassi davanti a lui, nella sua enorme tenda, e mi aveva mandato un costume groshing perché l’indossassi. Lo misi e mi ammirai nello specchio sorretto dai suoi servi. Era scarlatto, ricamato di perle e di dischi d’argento e di nastrini rossosangue. Io avevo un oceano di folti capelli neri, e occhi verdi, ed ero insumatt. Poi una vecchia saggia della nostra tribù mi si avvicinò, facendo sferragliare le sue catene, poveretta, e mi prese in disparte.