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«I robot, gli schermi e il resto raccolgono le notizie per le trasmissioni, come puoi vedere. I banchi dei monitor, qui, ricevono e selezionano i rapporti della Commissione ed i saggi sul comportamento sociale. Questo computer trasmette direttamente dal Limbo, ogni giorno, l’elenco dei cambiamenti di corpo via via che viene compilato, e questo trasmette le identificazioni individuali su richiesta degli interessati.» Il Q-R mi fece fare il giro della sala, mentre mi teneva questa lezioncina.

«E loro?» chiesi, indicando i due distratti lavoratori.

«Oh,» disse il Q-R, «fanno scattare i pulsanti che attivano ogni comunicazione.»

«Quindi, senza di loro, va tutto quanto a catafascio?» domandai io.

«Beh, non proprio,» ammise il Q-R. «Ogni pulsante scatta automaticamente dopo uno split.»

«Capisco,» dissi.

C’era un altro paio di lavori altrettanto eccitanti, e tutti venivano svolti automaticamente se gli Anziani se ne dimenticavano, e questo era un bene, perché si vedeva benissimo che i due lavoratori si erano appena assopiti.

«Grazie,» dissi io. «E adesso dove andiamo?»

Molto patetico, in realtà. Pensavo che Urbanistica suonasse molto promettente. In realtà, ecco cosa succede: la Commissione svolge un’indagine, per esempio, e scopre che il traffico aereo diretto al Palazzo dell’Avventura si ingorga nei pressi del Monumento al Tempo e allo Spazio. Allora la Commissione redige un rapporto in cui dice che questo succede a causa della coda degli avioplani che aspettano di cadere nelle reti del Monumento, e che bisogna fare un ponte speciale perché si mettano in coda, perché in tal modo non sono più d’intralcio. Tutto questo arriva tramite un computer e viene tradotto da un altro computer, dopodiché il messaggio viene consegnato a un Anziano, ufficialmente designato Pianificatore. Felice di quel compito esaltante, quello scova un assortimento di macchine adatte e le programma perché trovino il modo migliore di costruire il ponte, di deviare il traffico nel frattempo, eccetera. Poi, fierissimo, portando i calcoli matematici delle macchine, le proposte dei colori, le indicazioni d’equilibrio artistico e della disposizione dei cartelli segnaletici nelle mani sudate per l’entusiasmo, va a un altro parco macchine, incarica un robot di inserire le istruzioni nel computer competente e, palpitando, guarda l’apparato metallico che si mette all’opera per costruire il ponte della deviazione. E quelli si illudono davvero di aver fatto qualcosa.

«La spirale che ho costruito vicino al Museo del Pensiero,» lasciano cadere modestamente, tenendo sempre d’occhio il computer più vicino, nell’eventualità che la Comissione trovi un blocco nella Via d’Acqua Purpurea, o qualcosa di altrettanto sconvolgente.

Ormai ero preparata a vedere il peggio, al Centro delle Realizzazioni Artistiche.

È a colori pastello: fuori ci sono statue d’acqua, gigantesche e quasi invisibili, e alberi di bronzo che ti fanno pendere addosso il loro fogliame. Io mi impigliai con i capelli e per poco non mi strangolai, prima che il Q-R mi districasse. Mi diede un’occhiata strana. Forse pensava che volessi un altro corpo nuovo.

E poi entrammo, salimmo un paio di pavimenti volanti, e io mi eccitai perché lì la gente faceva veramente qualcosa. Strillai per l’emozione.

«Oh, sì,» fece in tono gentile il mio Q-R, «qui c’è spazio libero per il tocco personale.»

Poi ci fermammo a guardare una femmina euforica che scalpellava via pezzetti di marmo da un enorme masso bianco, e notai che a) usava una macchina con un dente affilato a un’estremità, e b) che la pietra era contrassegnata in modo molto chiaro, e che i segni magnetizzavano il dente. Un po’ più avanti, gli artisti si erano stancati e lasciavano che le macchine continuassero da sole il lavoro, mentre loro si ingozzavano di fuoco-di-vino e di biscotti.

Il mio Q-R dovette accorgersi che ero pallida ed esasperata. Si affrettò a dirmi:

«Però i progetti vengono fatti proprio dagli artisti.»

«Dimostralo,» lo sfidai.

Salimmo ancora, e trovammo alcuni artisti impegnatissimi, effettivamente, solo che le cose si svolgevano così:

Domanda dell’artista: «Se inserisco una bacchetta ad angolo retto sulla sinistra, starà in equilibrio?»

Luce rossa, indicante che l’oggetto cadrà.

Domanda dell’artista: «Se sostengo la bacchetta con una seconda bacchetta, di larghezza doppia, e le sostengo entrambe con una intelaiatura a cubo inserita di traverso, allora saranno in equilibrio?»

Luce gialla, e un rotolo di cartamodello indicante che, sì, può andare e (consiglio utile) forse sarebbe meglio mettere due intelaiature cubiche contrapposte.

O anche: «Stai a sentire, robot, io posso fare gli occhi se tu mi dai una mano con gli zigomi.» Oppure: «La tua macchina potrebbe prepararmi quella meravigliosa sfumatura gialla che assume il cielo al tramonto? La mia è diventata troppo rosa.»

Io restai lì a guardare tutto quanto, e mi sentii diventare zaradann.

«Procuratemi un po’ di pietra!» urlai a tutti. La cosa li sconvolse. Il mio Q-R mi toccò il braccio e urlò ancora più forte: «Pietra e una macchina scalpellatrice! E colori! Subito!»

7.

Bene, ero un’idiota, no?

Andò a pezzi, no?

Ma solo dopo che io ce l’avevo messa veramente tutta.

I robot lo portarono e quasi me lo scaraventarono sui piedi, quel grande blocco rozzo di roba che sembrava impossibile. Io non sapevo bene quello che stavo facendo, e gli altri mi stavano intorno a bocca aperta. Il Q-R si sedette su una poltroncina molto artistica, e assunse un’aria contemplativa.

Presi la mira. Lì non c’erano i facili segni magnetizzati, ma lo slancio con cui partì il dente dello scalpello per poco non mi strappò via il braccio. E mi accorsi che ero passata adirittura dall’altra parte. Beh, voglio dire, era questo che avevo avuto intenzione di fare, no? Coraggio! Tentai ancora e questa volta poco mancò che passassi anch’io attraverso il blocco, trascinata dallo scalpello. Mi ributtai all’indietro i capelli e riprovai ancora, e riuscii a congiungere i due buchi con un arco sottile e slanciato. Qualcosa ero riuscita a combinare.

Scalpellai e raschiai per millenni, mentre le schegge volavano nei cestini magnetizzati, e presto mi trovai a strisciare dentro le cavità, a trapanare e a colpire violentemente. Era molto intricato e a me piaceva, e quasi non badavo più agli occhi che mi stavano sbirciando.

All’improvviso, qualcuno mi afferrò i capelli, in una torsione torturante. Imprecai energicamente, fino a quando mi accorsi che non era stato nessuno. I miei capelli scarlatti si erano impigliati nella trina marmorea. Il Q-R dovette scendere, con la solita pazienza, per districarmi, e dopo quella dovette scendere molte altre volte.

«Oh, prendi qualcosa per tagliare,» scattai quando finalmente mi trovai appesa in un grande varco ovale, in una sorta di frenetica ragnatela di capelli, in cui fremevano milioni di schegge di pietra. I miei capelli diventarono sempre più corti e, quando si ridussero lunghi solo fino alle ginocchia, decisi di averne avuto abbastanza e uscii fuori prima di diventare calva.

C’erano enormi barattoli di colore dalle tinte splendide, intorno all’area dove lavoravo, e cominciai a intingere nell’uno e nell’altro, soddisfatta. Anch’io cominciai a cambiare colore. I miei capelli erano diventati rosa platino, e avevo il naso color verde veronese. Giocai con i colori per creare illusioni, dipingendo i recessi in ombra a toni vividi e luminosi, e i piani sporgenti a cremisi e violetti tonanti, conducendo il motivo d’una linea ininterrotta attraverso vari angoli, e facendo apparire e sparire nella pietra vortici che parevano di fuoco.

Saltammo innumerevoli pasti, il mio pubblico ed io. Ormai era pomeriggio inoltrato.