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Senza perdere tempo in ragionamenti botanici, Gibson avanzò fino al centro della piccola foresta. Le piante non erano eccessivamente addossate le une alle altre, quindi era abbastanza facile avanzare. Quando gli parve di essersi inoltrato a sufficienza, alzò il flash e lo puntò in direzione di Phobos.

Il satellite si presentava ora come una sottile falce sullo sfondo del Sole, e Gibson si sentì un po’ ridicolo a dirigere lampi di luce proprio nella luminosità del cielo estivo. Invece il momento era ben scelto, perché il lato di Phobos rivolto verso di loro era in ombra, quindi i telescopi del satellite operavano in condizioni favorevoli.

Fece scattare dieci volte il flash al ritmo di due lampi consecutivi seguiti da una pausa. Gli parve il sistema più economico e al tempo stesso più efficace per far capire a un eventuale osservatore che si trattava di segnali intelligenti e non di fenomeni naturali.

«Per oggi basta così» disse poi. «Conserviamo il resto delle munizioni per quando farà buio. E adesso diamo un’occhiata a queste piante. Lo sai che cosa mi ricordano?»

«Alghe marine giganti» rispose pronto Jimmy.

«Bravo. Azzeccato. Chissà che cosa c’è in quei baccelli… Hai per caso un temperino? Grazie.»

Con la punta del temperino, Gibson forò una delle minuscole bacche nere. Evidentemente contenevano gas, e a pressione considerevole, perché mentre il coltello penetrava si sentì un debole fischio.

«Che strani» disse Gibson. «Prendiamone un campione da far vedere agli altri.»

Con qualche difficoltà staccò una lunga foglia tagliandola presso le radici. Dall’estremità recisa fluì un liquido denso, di colore scuro, che formava minuscole bollicine gassose. Con quel trofeo sulla spalla, Gibson prese la strada del ritorno.

In quel momento non sapeva di portare con sé l’avvenire di un mondo.

Percorsi pochi passi incontrarono una zona di vegetazione più fitta, e dovettero deviare. Avendo il Sole come guida non correvano pericolo di perdersi, perciò non si preoccuparono di ricalcare il cammino percorso in precedenza.

Gibson camminava in testa, ma procedeva con una certa fatica e stava già meditando di sacrificare l’orgoglio e chiedere a Jimmy di sostituirlo, quando notò con sollievo di essere arrivato a un sentiero serpeggiante che portava più o meno nella direzione giusta.

Per un eventuale osservatore quella sarebbe stata una interessante dimostrazione della lentezza di certi processi mentali. Gibson e Jimmy infatti percorsero un buon tratto, sei lunghi passi almeno, prima di rendersi conto della semplice ma strabiliante verità che i sentieri, di solito, non si tracciano da soli.

«I nostri due esploratori non dovrebbero essere già tornati?» disse il pilota ancora occupato assieme a Hilton a smontare i fari dal lato inferiore dell’ala dell’aereo. Il lavoro era andato abbastanza bene, e Hilton sperava di trovare a bordo dell’apparecchio un cavo sufficiente per portare i forti riflettori sufficientemente lontano dalla roccia in modo che fossero visibili da Phobos non appena il satellite fosse sorto di nuovo. Certo non avrebbero avuto la luminosità del flash di Gibson, ma i loro raggi immobili e costanti avevano più probabilità di essere notati.

«È molto che sono fuori?»

«Circa quaranta minuti. Spero che siano stati tanto intelligenti da non perdersi.»

«Gibson ha troppo buon senso per commettere imprudenze. Però non mi fiderei molto di Jimmy… Ha la fissazione di scoprire i Marziani!»

«Oh, eccoli. Hanno l’aria di avere molta fretta.»

Il fatto che Gibson e Jimmy tornassero dopo un tempo ragionevole rappresentava il trionfo della prudenza e del senso di autodisciplina.

Per un minuto buono avevano fissato sorpresi e increduli lo stretto sentiero serpeggiante tra le sottili piante brune. Sulla Terra niente sarebbe stato più banale: sembrava in tutto e per tutto un tipico sentiero tracciato dal passaggio del bestiame lungo i monti, o dagli animali selvatici in una foresta. Era stato proprio per il suo aspetto così familiare che non l’avevano notato subito, e anche quando avevano preso improvvisamente coscienza della realtà, avevano cercato di spiegarla con ragionamenti normali, terrestri, per così dire.

Gibson aveva parlato per primo, ma sottovoce, quasi nel timore che qualche misterioso essere invisibile potesse sentirlo.

«È un sentiero, Jimmy, un sentiero bello e buono! Chi può averlo tracciato, in nome di… Nessuno è mai stato qui, sinora.»

«Dev’essere stato qualche animale.»

«E parecchio grosso, anche.»

«Forse grosso quanto un cavallo.»

«O una tigre.»

Quest’ultima osservazione provocò un silenzio inquieto. Poi Jimmy aveva detto: «Be’, se tentasse di assalirci, credo che il vostro flash spaventerebbe qualsiasi mostro, per grosso che possa essere.»

«Bisognerebbe che avesse gli occhi» aveva obiettato Gibson. «E se invece fosse dotato di sensi completamente diversi dai nostri?»

Era evidente che stava cercando una buona scusa per andarsene di lì alla svelta.

«In ogni caso sono sicuro che siamo in grado di correre più in fretta e di saltare più in alto di qualsiasi animale o essere marziano.»

Gibson si era augurato che l’affermazione del ragazzo fosse dettata più dalla logica che dal desiderio d’avventura.

«Comunque non intendo correre rischi» aveva detto in tono fermo. «Adesso andiamo subito ad avvertire gli altri. Poi decideremo sul da farsi.»

Impiegarono un certo tempo per convincere gli altri che parlavano sul serio, e che uno scherzo in quelle circostanze sarebbe stato fuori luogo. Eppure era una storia incredibile. Ognuno di loro sapeva perfettamente perché non poteva esserci vita animale su Marte. Era una semplice questione di metabolismo: gli animali bruciano ossigeno più in fretta delle piante, e per questo non potevano esistere in un’atmosfera così rarefatta e praticamente inerte. I biologi non avevano tardato a sottolineare questo fatto non appena le condizioni di vita sulla superficie marziana erano state accertate, e da dieci anni ormai la possibilità dell’esistenza di vita animale sul pianeta era stata scartata da tutti, tranne che da qualche sognatore inguaribile.

«Anche ammesso che abbiate veramente visto quello di cui andate farneticando, avrà sicuramente una spiegazione naturale» disse infine Hilton.

«Vai ad accertartene di persona» disse Gibson. «Io ti ripeto che è un sentiero vero e proprio, e ben tracciato, per giunta.»

«Si capisce che ci vado» disse Hilton

«E ci vengo anch’io» disse il pilota.

«Un momento. Non possiamo andare tutti. Almeno uno deve restare di guardia all’apparecchio.»

«Io non posso. Sono stato io a scoprire il sentiero» disse Gibson con fermezza.

«Ho capito, qui si sta preparando un ammutinamento» disse Hilton. «Va bene. Chi ha una moneta? Faremo a testa e croce.»

«Per me, è un viaggio inutile» mormorò il pilota scuotendo la testa, quando seppe che la sorte l’aveva scelto per restare a bordo. «Tra un’ora dovete essere di ritorno, e se ci mettete di più voglio che mi riportiate come minimo un’autentica principessa marziana da Mille e una notte.»

Malgrado il suo scetticismo, Hilton stava invece prendendo la cosa con maggiore serietà.

«Essencio in tre, dovremmo poterci difendere anche se incontrassimo qualcosa di spiacevole» disse. «Ma nel caso in cui nessuno di noi tornasse, voi non muovetevi di qui e non venite a cercarci per nessun motivo. Capito?»

«Va bene, mi legherò al sedile.»

Il terzetto si avviò lungo la valle in direzione della piccola foresta. Gibson faceva strada. Raggiunte le alte ed esili fronde di alga marina, non ebbero difficoltà a ritrovare la pista. Hilton la studiò attentamente per vari minuti, mentre Gibson e Jimmy lo guardavano con l’aria di dire: "Avevamo ragione o no?". Quindi disse: