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«Noi non ci stancavamo mai di guardare. Saturno ruota con tanta velocità, che il panorama muta continuamente. Le formazioni di nubi, ammesso che si trattasse effettivamente di nubi, sfrecciavano da un lato all’altro del disco in poche ore, trasformandosi di continuo nel loro fuggire. Ed avevano i colori più meravigliosi e incredibili. Ce n’erano di verdi, di viola, di gialle soprattutto. Di tanto in tanto si verificavano lente, enormi eruzioni, e dalle profondità si levava un fungo grande quanto la Terra che andava pigramente allargandosi in una macchia immensa che ricopriva metà pianeta.

«Era impossibile non guardare. Persino di notte, quando era completamente invisibile, se ne indovinava la presenza dalla grande porzione di cielo vuoto di stelle. A questo proposito voglio raccontarvi una cosa curiosa della quale non ho mai parlato ufficialmente perché non ne sono mai stato del tutto sicuro. Un paio di volte, mentre ci trovavamo nell’ombra del pianeta e il suo disco avrebbe dovuto essere completamente spento, ebbi l’impressione di vedere provenire dal suo lato notturno una debole luce fostorescente di brevissima durata, ammesso che ci fosse stata. Forse si trattava di qualche misteriosa reazione chimica in atto nel roteante pentolone.

"Vi sorprende che desideri tornare su Saturno? Questa volta mi piacerebbe potergli andare vicino per davvero, e per vicino intendo non più di mille chilometri. Dovrebbe essere una impresa sicura e non si dovrebbe consumare troppa energia. Basta entrare in un’orbita parabolica e poi lasciarsi cadere all’interno come una cometa che giri intorno al Sole. Certo non sarebbe possibile stargli vicino più di qualche minuto, ma anche in pochi minuti si può osservare molto.

«E voglio poi tornare su Mimas e rivedere ancora una volta quella immensa lucente mezzaluna che occupa metà cielo. Vale la pena di tare tutto quel lungo viaggio solo per osservare Saturno crescere e calare, e contemplare le tempeste che si inseguono intorno al suo equatore. Sì, ne varrebbe veramente la pena, anche se questa volta non dovessi tornare!»

Non c’era la minima retorica in quelle sue ultime parole. Era una semplice costatazione, e i compagni che lo ascoltavano non pensarono neppure per un attimo che Hilton volesse atteggiarsi a eroe da melodramma. Anzi, finché l’incanto durava, ognuno di loro si sentiva pronto a imitarlo.

Gibson mise termine al lungo silenzio seguito al racconto di Hilton, andando a scrutare la notte attraverso il finestrino della cabina.

«Possiamo spegnere le luci?» chiese. Il pilota acconsentì subito alla sua richiesta, e nel buio più fitto gli altri lo raggiunsero presso il finestrino.

«Guardate» disse Gibson. «Se allungate il collo riuscirete a vederlo lassù.»

La roccia contro la quale erano adagiati non era più un muro di oscurità assoluta, impenetrabile. Proprio sulla sua cima più alta brillava ora una luce nuova, che infiltrandosi nei crepacci dilagava giù a valle. Phobos si era arrampicato su da occidente e stava compiendo la sua ascesa verso sud, correndo alla rovescia per il cielo.

Di minuto in minuto la luce si faceva più intensa, e poco dopo il pilota cominciò a inviare i suoi segnali. Ma aveva appena iniziato, che la fievole luce lunare si spense improvvisamente strappando a Gibson un grido di sorpresa. Phobos era andato a immergersi nell’ombra di Marte, e nonostante che tosse tuttora in ascesa avrebbe cessato di brillare per quasi un’ora. Non era possibile dire se si sarebbe ancora affacciato sopra l’orlo della grande roccia venendo così a trovarsi nella posizione giusta per ricevere i segnali radio dell’apparecchio danneggiato.

Per quasi due ore i naufraghi aspettarono, sperando. A un tratto la luce riapparve sulle cime, ma brillava adesso da est. Phobos era emerso dalla sua eclissi e si stava buttando a capofitto verso l’orizzonte che avrebbe raggiunto in poco più di un’ora. Disgustato, il pilota chiuse la trasmittente.

«Non ce la facciamo» disse. «Dovremo tentare qualche altro mezzo.»

«Ho un’idea» disse Gibson. «Perché non proviamo a trasportare la trasmittente sulla cima della collina?»

«Ci avevo pensato anch’io, ma sarebbe già un’impresa tirarla fuori avendo gli attrezzi adatti, perché tutto è inserito dentro l’ossatura. Figuriamoci in queste condizioni!»

«Comunque sia, per stanotte non possiamo fare più niente» concluse Hilton. «Propongo che si dorma tutti fino a domattina all’alba. Io vi auguro buona notte.»

Un ottimo consiglio ma difficile da seguire. La mente di Gibson era in ebollizione, e seguitava a elaborare progetti per l’indomani. Solo quando Phobos si fu finalmente tuffato a oriente e la sua luce cessò di scherzare sulla roccia che li sovrastava, riuscì ad addormentarsi di un sonno inquieto.

12

Gibson si svegliò che l’alba era spuntata da un pezzo. Il Sole era ancora invisibile dietro le colline, ma i suoi raggi si riverberavano sulle rupi scarlatte e inondavano la cabina di una luce irreale, quasi sinistra. Si stirò. Era tutto indolenzito. Quei sedili non erano certo stati progettati per dormirci, in più lui aveva passato una notte assai agitata.

Si guardò attorno in cerca dei compagni. Hilton e il pilota erano scomparsi. Jimmy invece dormiva ancora profondamente. Gli altri due erano sicuramente usciti in esplorazione. Gibson si sentì un po’ offeso al pensiero di essere stato messo in disparte, ma capì che forse si sarebbe seccato ancora di più se gli avessero, interrotto il sonno.

Hilton aveva appuntato alla parete della cabina, bene in evidenza, un breve messaggio. Diceva semplicemente: "Siamo usciti alle 6.30. Staremo fuori circa un’ora. Quando rientreremo avremo fame".

Impossibile non raccogliere l’appello implicito. D’altra parte anche lui aveva fame. Frugò nel pacco speciale d’emergenza che ogni apparecchio aveva a bordo per casi simili, chiedendosi per quanto tempo avrebbero dovuto attingervi e soprattutto sino a quando sarebbero durate le scorte.

I suoi tentativi per preparare una bevanda calda sul minuscolo bollitore a pressione svegliarono Jimmy. Il ragazzo fece una faccia mortificata quando si accorse di avere dormito più di tutti.

«Hai riposato bene?» gli chiese Gibson mentre cercava le tazze.

«Malissimo» rispose Jimmy riordinandosi i capelli con le mani. «Mi sento come se non dormissi da una settimana. Dove sono gli altri?»

Alla sua domanda rispose un rumore di passi: qualcuno stava entrando nel compartimento stagno. Un attimo dopo comparve Hilton seguito dal pilota. Si tolsero le maschere e le tute spaziali termiche, fuori la temperatura era tuttora sotto lo zero, e si precipitarono sulle tazze di cioccolata e le razioni di carne che Gibson aveva diviso in parti uguali.

«Allora?» chiese Gibson, con ansia. «Qual è il verdetto?»

«Una cosa possiamo dirtela subito» disse Hilton tra un boccone e l’altro. «Dobbiamo ritenerci straordinariamente fortunati di essere ancora vivi.»

«Questo lo so.»

«Lo sai soltanto a metà, perché non hai ancora visto dove siamo scesi. Prima di fermarci siamo filati parallelamente a quella roccia per quasi mille metri. Bastava uno sbandamento di un paio di gradi a destra, e addio! Quando abbiamo toccato il suolo abbiamo oscillato un po’ all’indietro, ma per fortuna non abbastanza da riportare danni.

«Ci troviamo in una valle lunga che corre da est a ovest. Più che di un antico letto di fiume ha tutto l’aspetto di un errore geologico, così a occhio e croce. La roccia che abbiamo di fronte è alta circa cento metri ed è praticamente verticale. Per essere esatti, in prossimità della cima si piega leggermente a uncino. Può darsi che con un po’ di buona volontà si possa scalarla, ma per il momento non abbiamo provato. Del resto non ce n’è bisogno. Se vogliamo che da Phobos ci vedano basterà che ci spostiamo un po’ a nord in modo che la roccia non si frapponga tra noi e loro. In realtà, credo che questo sia il sistema migliore, soltanto dovremmo riuscire a portare l’apparecchio in un luogo più scoperto, il che ci permetterà di usare la radio, e darà ai telescopi e alle ricerche dall’aria una maggiore possibilità di individuarci.»