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Nessuna di queste eventualità si verifica, mentre scivolo sul vuoto lungo il cavo ultraleggero. L’unico rumore è il lieve ronzio del freno della carrucola, mentre modero la velocità, e il lieve fruscio d’aria. Siamo ancora in pieno sole e sul pianeta è tarda primavera, ma sopra gli ottomila metri l’aria è sempre fredda. Respirare non è un problema. Ogni giorno, da quando sono giunto su T’ien Shan, ringrazio gli dei dell’evoluzione planetaria perché, anche con gravità un po’ più leggera, 0,954 g standard, a questa altitudine c’è maggiore ricchezza d’ossigeno. Lancio un’occhiata alle nuvole vari chilometri sotto i miei stivali e penso all’oceano che ribolle in quella cieca pressione, agitato da venti di fosgene e di densa anidride carbonica. Su T’ien Shan non c’è una vera superficie terrestre, solo quella densa brodaglia di oceano planetario e innumerevoli picchi e creste che si alzano per migliaia di metri verso lo strato di ossigeno e la vivida luce del sole simile a quella di Hyperion.

Il pensiero mi stuzzica la memoria. Ricordo un altro pianeta di nuvole dove mi sono trovato solo qualche mese fa. Penso al mio primo giorno nella nave, prima di raggiungere il punto di traslazione, mentre guarivo dalla febbre e dalla gamba rotta, quando avevo detto oziosamente alla nave: "Chissà come ho varcato il teleporter, su quel pianeta. Il mio ultimo ricordo riguarda una gigantesca creatura…".

La nave aveva risposto proiettando un ologramma preso da una delle sue olocamere boa mentre se ne stava sul fondo del fiume dove l’avevamo lasciata. Era un’immagine migliorata alla luce delle stelle, pioveva, e mostrava l’arcata rilucente e verdastra del teleporter e cime d’alberi agitate dal vento. All’improvviso un tentacolo più lungo della nave era emerso dal teleporter, reggendo quello che pareva un kayak giocattolo avvolto da una massa di sbrindellato tessuto di paravela. Il tentacolo aveva fatto una singola, aggraziata, lenta torsione: paravela, kayak e la figura accasciata nell’abitacolo erano scivolati, si erano dimenati in realtà, per un centinaio di metri ed erano scomparsi fra le cime degli alberi.

"Perché non sei venuta a prendermi subito?" avevo domandato, senza curarmi di nascondere l’irritazione. Sentivo ancora male alla gamba. "Perché hai aspettato tutta la notte, mentre penzolavo nella pioggia? Potevo morire."

"Non avevo l’ordine di ricuperarla al suo ritorno" aveva risposto l’arrogante, idiota sapiente nave. "Poteva anche essere impegnato in chissà quale importante missione che non ammetteva interruzioni. Se non avessi avuto sue notizie nel giro di alcuni giorni, avrei inviato nella giungla un cingolato automatico per accertarmi che stesse bene."

Avevo spiegato la mia opinione sulla sua logica.

"Indicazione bizzarra" aveva detto la nave. "Se da una parte ho certi elementi organici incorporati nella mia substruttura e componenti computeristici DNA decentralizzati, non sono, nel senso stretto del termine, un organismo biologico. Non possiedo un sistema digerente. Non ho bisogno di eliminare niente, tranne l’occasionale gas di scarico e l’effluvio dei passeggeri. Ne consegue che non possiedo ano sia in senso reale sia in senso figurato. Perciò non credo proprio di avere le qualifiche per essere definita una…"

"Chiudi il becco!"

La scivolata richiede meno di quindici minuti. Freno con cautela, mentre la grande muraglia della cresta K’un Lun si avvicina. Per l’ultimo centinaio di metri la mia ombra e quella di A. Bettik sono proiettate davanti a noi sulla distesa verticale di roccia arancione e diventiamo ombre di burattini, due bizzarri stecchi con appendici sferzanti, che azionano gli anelli per frenare la corsa e allungano le gambe in vista dell’atterraggio. Poi il rumore del freno della carrucola passa da un basso ronzio a un forte gemito, mentre rallento per l’accosto finale alla cornice d’atterraggio, una lastra di pietra di sei metri, con la parete di fondo imbottita di vello di zigocapra scuro e marcio per le intemperie.

Scivolo, rimbalzo e mi fermo a tre metri dalla parete, trovo un solido punto d’appoggio sulla roccia e con la rapidità derivante dalla pratica sgancio la carrucola e la fune di sicurezza. L’attimo dopo, A. Bettik scivola e si ferma accanto a me. Anche con una sola mano, l’androide ha movimenti molto più sciolti dei miei, sui cavi: sfrutta meno di un metro di spazio d’atterraggio.

Restiamo lì per un minuto e guardiamo il sole in equilibrio sul profilo della cresta Phari: la bassa luce dipinge la sommità a cono che si alza sopra la corrente a getto, a sud. Poi ci sistemiamo l’imbracatura e la reticella di attrezzi. Alla fine dico: «Sarà già buio, quando giungeremo nel Regno di mezzo».

A. Bettik annuisce. «Preferirei che lo scivolo fosse già alle nostre spalle prima che faccia buio, signor Endymion. Ma penso che sia solo un pio desiderio.»

Il solo pensiero di usare lo scivolo nel buio mi fa aggricciare lo scroto. Mi domando futilmente se un androide maschio ha la mia stessa reazione fisiologica. «Allora muoviamoci» dico e mi avvio a passo svelto giù dalla cornice di pietra.

Sul cavo abbiamo perso alcune centinaia di metri di quota e ora dobbiamo ricuperarla. La cornice termina presto, sui picchi delle Montagne del cielo ci sono poche zone piane, e i nostri stivali fanno rumore mentre percorriamo una impalcatura passerella di bambù bonsai appesa alla parete dell’abisso e sporgente sul vuoto. Non c’è ringhiera. Il vento della sera si alza; mentre procediamo, chiudo ermeticamente il giubbotto termico e il chuba di lana di zigocapra. Il pesante sacco da montagna mi rimbalza sulla schiena.

Il punto jumar si trova a meno di un chilometro a nord della cornice d’atterraggio. Sulla passerella non incontriamo nessuno, ma in lontananza, dall’altra parte della valle rannuvolata, si accendono le torce sulla via Pedonale tra Phari e Jo-kung. Le impalcature e il labirinto di ponti sospesi da questo lato del Grande Abisso si animano di persone dirette a nord; alcune vanno di sicuro al Tempio a mezz’aria per ascoltare le discussioni nella sessione pubblica serale tenuta da Aenea. Voglio arrivare lì prima di loro.

Il punto jumar consiste in quattro corde fisse che corrono lungo la parete verticale per circa settecento metri sopra di noi. Quelle corde, di colore rosso, sono per la salita. Qualche metro più in là penzolano le corde azzurre per il rinvio dalla sommità della cresta. L’ombra della sera ormai ci copre e il vento è gelido. «Fianco a fianco?» dico ad A. Bettik, indicando una delle corde interne.

L’androide annuisce. La sua espressione è identica a come la ricordo dalla nostra partenza da Hyperion, quasi dieci dei suoi anni fa. Cosa mi aspettavo? Che un androide invecchiasse?

Togliamo dalle reticelle gli ascender a motore, li agganciamo a due corde contigue di microfibra; proviamo a scuoterle, come se lo strattone potesse dirci che sono ben ancorate. Qui le corde fisse sono controllate solo di tanto in tanto dagli addetti ai cavi; potrebbero essere sfilacciate dai morsetti jumar di qualcuno o abrase da spuntoni di roccia nascosti o coperte di ghiaccio. Presto lo sapremo.

Agganciamo una catena a margherita e le staffe all’ascender a motore. A. Bettik srotola otto metri di corda da scalata che agganciamo con moschettoni alle nostre imbracature. Così, se una corda fissa cede, uno di noi può arrestare la caduta dell’altro. Questa almeno è la teoria.

Gli ascender a motore costituiscono quasi tutta la tecnologia posseduta dalla maggior parte degli abitanti di T’ien Shan: alimentati da una batteria solare sigillata, poco più grandi della nostra mano che si adatta all’impugnatura anatomica, gli ascender sono eleganti attrezzi da scalata. A. Bettik controlla gli agganci e annuisce. Col pollice metto in moto i miei due ascender. Le spie luminose sono verdi. Sposto l’ascender destro di un metro, lo blocco, metto il piede nell’anello della staffa, controllo di non essermi impigliato, faccio salire un poco l’ascender sinistro, lo blocco, sposto il piede di due anelli e proseguo a questo modo. E così per settecento metri. Di tanto in tanto ci fermiamo, appesi alle staffe, e guardiamo dall’altra parte della valle, dove la via Pedonale brilla di torce. Ora il sole è tramontato, il cielo è divenuto subito più scuro, porporino e violaceo, e le stelle più luminose già compaiono. Calcolo che ci restano circa venti minuti di vero crepuscolo. Percorreremo nel buio lo scivolo.