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«Tutti i peccati commessi

nei Tre Mondi

svaniranno e scompariranno

insieme con me stesso.»

Il cardinale Mustafa attese qualche secondo, capì che la poesia era terminata e disse: «Di quali tre mondi parlava, Santità?».

«In quell’epoca non c’era il volo spaziale» disse il bambino, cambiando leggermente posizione sul trono di cuscini. «I Tre Mondi sono il passato, il presente e il futuro.»

«Molto bella» disse il cardinale del Sant’Uffizio. Dietro di lui, il suo aiutante padre Farrell fissava il bambino, con un’espressione simile a freddo disgusto. «Ma noi cristiani» continuò il cardinale Mustafa «non crediamo che il peccato, o gli effetti del peccato, o la responsabilità per il peccato, termini con la vita del peccatore, Santità.»

«Precisamente» sorrise il bambino. «Proprio per questa ragione mi incuriosisce il motivo per cui estendete artificialmente la vita per mezzo del crucimorfo. Noi pensiamo che la morte lavi la lavagna. Voi pensate che porti il giudizio di Dio. Perché differire il giudizio di Dio?»

«Noi riteniamo il crucimorfo un sacramento donatoci da Nostro Signore Gesù Cristo» replicò con calma il cardinale Mustafa. «Il giudizio fu differito dapprima dal sacrificio del nostro Salvatore sulla croce, l’accettazione di Dio stesso del castigo per i nostri peccati e la concessione della possibilità di vita eterna in cielo, se così scegliamo. Il crucimorfo è un altro dono del nostro Salvatore, forse la concessione del tempo per mettere in ordine la nostra casa prima del giudizio finale.»

«Ah, sì» sospirò il bambino. «Ma forse Ikkyu intendeva significare che non esistono peccatori. Che non esiste peccato. Che la "nostra" vita non appartiene a noi…»

«Esattamente, Santità» lo interruppe il cardinale, come se facesse un complimento a una persona lenta nell’apprendere. Il reggente, il lord camerlengo e altri intorno al trono trasalirono per quella interruzione. «Le nostre vite non appartengono a noi, ma al Nostro Signore e Salvatore e, per servire Lui, alla nostra Santa Madre Chiesa.»

«… ma appartiene all’universo» continuò il bambino. «E che le nostre opere, buone e cattive, sono anch’esse proprietà dell’universo.»

Il cardinale Mustafa corrugò la fronte. «Una frase graziosa, Santità, ma forse troppo astratta. Senza Dio, l’universo può solo essere una macchina, senza pensieri, sentimenti, sensazioni.»

«Perché?» disse il bambino.

«Prego, Santità?»

«Perché l’universo dev’essere senza pensieri, sentimenti, sensazioni, astraendolo dalla vostra definizione di un Dio?» disse con calma il bambino. Chiuse gli occhi.

«La rugiada del mattino

fugge via

e non c’è più.

Chi può restare

in questo nostro mondo?»

Il cardinale Mustafa congiunse le dita e si toccò le labbra, come in preghiera o in preda a una certa frustrazione. «Molto bella, Santità» disse. «Ancora Ikkyu?»

Il Dalai Lama ebbe un largo sorriso. «No. Io. Mi diletto a scrivere poesie zen, quando non riesco a dormire.»

I tre preti ridacchiarono. La creatura Nemes fissava Aenea.

Il cardinale Mustafa si rivolse alla mia amica. «Signora Ananda, ha una sua opinione su queste importanti questioni?»

Per un attimo non capii a chi si fosse rivolto, ma poi ricordai che il Dalai Lama aveva presentato Aenea col nome di Ananda, principale discepolo di Buddha.

«Conosco un’altra poesia di Ikkyu che esprime la mia opinione» disse Aenea.

«Più fragile e illusorio

di numeri scritti sull’acqua

il nostro cercare dal Buddha

la felicità nell’altro mondo.»

L’arcivescovo Breque si schiarì la gola e si unì alla conversazione. «Questo pare chiaro a sufficienza, giovane signora. Lei non crede che Dio esaudirà le nostre preghiere.»

Aenea scosse la testa. «Penso, eminenza, che Ikkyu intendesse due cose. Primo, che il Buddha non ci aiuterà. Non rientra nel suo compito, per così dire. Secondo, che fare conto sulla vita dopo la morte è sciocco, perché siamo per natura senza tempo, eterni, non nati, non mortali e onnipotenti.»

L’arcivescovo Breque divenne tutto rosso. «Questi aggettivi si possono applicare solo a Dio, signora Ananda» replicò. Intuì lo sguardo di fuoco del cardinale Mustafa e ricordò di essere lì in veste di diplomatico. «Così almeno crediamo» concluse debolmente.

«Per essere giovane e architetto, pare conoscere lo zen e la poesia, signora Ananda» ridacchiò il cardinale Mustafa, nel chiaro tentativo di alleggerire l’atmosfera. «Conosce altre poesie di Ikkyu che secondo lei potrebbero essere importanti?»

Aenea annuì.

«Venimmo a questo mondo soli,

ne dipartiamo soli,

anche questa è illusione.

Vi insegnerò la via

del non venire, del non andare.»

«Sarebbe un bel trucco» disse il cardinale Mustafa, con falsa giovialità.

Il Dalai Lama si sporse. «Ikkyu ci insegnò che è possibile vivere almeno parte della vita in un mondo senza tempo, senza spazio, dove non esiste nascita e morte, né venire e andare» disse con calma. «Un luogo dove non c’è separazione nel tempo, distanza nello spazio, barriera che ci tenga lontano da chi amiamo, parete di vetro fra l’esperienza e il nostro cuore.»

Il cardinale Mustafa lo fissò come se fosse rimasto senza parole.

«La mia amica, signora Ananda, mi ha insegnato anche questo» disse il bambino.

Per un istante il viso del cardinale fu distorto come da un ringhio. Si rivolse a Aenea. «Avrei piacere che la giovane signora insegnasse a me, insegnasse a noi tutti, questo abile trucco da stregone» disse in tono tagliente.

«Volentieri» replicò Aenea.

Rhadamanth Nemes mosse un mezzo passo verso la mia amica. Posai la mano sulla cappa, sfiorando il pulsante di accensione della torcia laser.

Con un bastone fasciato di seta il reggente colpì un gong. Il lord camerlengo venne subito avanti per scortarci fuori. Aenea rivolse un inchino al Dalai Lama e io goffamente la imitai.

L’udienza era terminata.

Ballo con Aenea nella grande sala di ricevimento piena d’echi, alla musica di un’orchestra di settantadue elementi; nobili e dame, sacerdoti e plenipotenziari di T’ien Shan, le Montagne del cielo, guardano dal margine della pista o volteggiano con noi nel comune movimento della musica. Ricordo di avere ballato con Aenea, di avere cenato di nuovo prima di mezzanotte ai lunghi tavoli riforniti in continuazione di cibi, poi di avere ballato ancora. Ricordo di averla tenuta stretta, mentre ci muovevamo insieme per la pista da ballo. Non ricordo di avere mai ballato prima di allora, da sobrio almeno, ma stanotte ballo, tengo stretta a me Aenea, mentre la luce delle fiamme scoppiettanti nei bracieri si affievolisce e l’Oracolo proietta sul parquet le ombre del lucernario.

Sono le prime ore del mattino e gli ospiti più anziani si sono già ritirati, tutti i monaci e i sindaci e i funzionari più anziani — tranne la Scrofa Folgore, che ha riso e cantato e battuto le mani a tempo con l’orchestra per ogni quadriglia, tamburellando con la babbuccia il lucido parquet — e rimangono solo quattro o cinquecento ospiti ben decisi a proseguire la festa nella grande sala in penombra, mentre la banda suona brani sempre più lenti, come se la loro molla musicale si andasse logorando.

Sarei già a letto da varie ore, lo confesso, se non fosse per Aenea: ma lei vuole ballare. Perciò balliamo, ci muoviamo lentamente, la sua mano nella mia, l’altra mia mano sulla schiena di lei (sotto la seta sottile del suo abito sento la spina dorsale e i forti muscoli) i suoi capelli contro la mia guancia, i morbidi seni contro il mio petto, la curva della testa contro il mio collo e il mento. Aenea sembra un po’ rattristata, ma ancora piena di energia, di voglia di festeggiare.