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Con la coda dell’occhio vidi che Aenea sogghignava. Però la sciocca battuta mi fece pensare. — Se con i portali non possiamo risalire il fiume, come troveremo la strada per tornare alla nave?

Aenea mi toccò la spalla. Il portale adesso si avvicinava rapidamente. — Percorriamo la fila fino a fare il giro — disse, superando il rumore del vento. — Il Teti era un grande cerchio.

Mi girai per guardarla bene in viso. — Scherzi, ragazzina? I mondi collegati dal Teti erano centinaia.

— Almeno duecento. Quelli di cui siamo a conoscenza.

Non capii l’ultima frase, ma sospirai di nuovo, mentre rallentavamo nei pressi del portale. — Se ogni tratto del fiume era lungo un centinaio di chilometri… sono ventimila chilometri di viaggio solo per tornare indietro.

Aenea rimase in silenzio.

Tenni sospeso il tappeto vicino al portale e per la prima volta mi resi conto di quanto fossero massicce in realtà quelle strutture. L’arco pareva fatto di metallo, con molti ghirigori, compartimenti, incavature (forse addirittura misteriose iscrizioni) ma la giungla aveva inviato viticci di rampicanti e licheni sulla parte superiore e sui lati del macchinario. Quella che all’inizio avevo ritenuto ruggine si rivelò una moltitudine di "foglie pipistrello" pendenti a grappoli dall’intrico di rampicanti. Mi tenni bene alla larga.

— E se si attiva? — dissi, mentre restavamo librati a un paio di metri dalla parte interna dell’arcata.

— Prova — rispose Aenea.

Spinsi avanti il tappeto, lentamente, quasi fermandolo quando arrivammo all’invisibile linea proprio sotto l’arco.

Non accadde niente. Attraversato in volo l’arco, girai il tappeto e tornai indietro. Il teleporter era semplicemente un ponte metallico pieno d’ornamenti che scavalcava il fiume.

— Morto — dissi. — Morto come i coglioni di Kelsey. — Era stata una delle frasi preferite di Nonna, usata solo quando pensava che i bambini non potessero udire, ma mi resi conto che c’era davvero una bambina a portata d’orecchio! — Chiedo scusa — dissi, girando la testa, rosso in viso. Forse avevo trascorso troppi anni nell’esercito o a lavorare con i barcaioli fluviali o a fare il buttafuori nelle case da gioco. Mi ero rincretinito.

Aenea rideva come una matta. — Raul — disse — non dimenticare che sono cresciuta facendo visita a zio Martin!

Tornammo alla nave e dall’alto salutammo A. Bettik, che in quel momento calava sulla spiaggia mucchi di roba. L’androide ci rispose agitando il braccio.

— Andiamo a valle per vedere quanto dista il prossimo portale? — dissi.

— Oh, certo!

Volando lungo il fiume vedemmo ben poche altre spiagge o interruzioni nella giungla: da tutte le parti alberi e rampicanti arrivavano ai bordi dell’acqua. Ero infastidito dal non sapere in quale direzione puntavamo, perciò tolsi dallo zaino la bussola inerziale e la misi in funzione. Su Hyperion la bussola era sempre stata la mia guida, anche se non si poteva fare affidamento sull’infido campo magnetico di quel pianeta, ma qui si rivelò inutile. Come per il sistema di guida della nave, la bussola avrebbe funzionato perfettamente, se avesse avuto il punto di partenza… lusso che si era perso nell’istante in cui avevamo attraversato il teleporter.

— Nave — dissi nel braccialetto comlog — puoi effettuare su di noi una lettura di bussola magnetica?

«Sì» fu l’istantanea risposta «ma senza conoscere con esattezza dove si trova il nord magnetico di questo pianeta, in realtà la direzione di viaggio sarebbe solo una stima approssimativa.»

— Dammi la stima approssimativa, per favore. — Feci una leggera virata per seguire l’ampia curva del fiume che si era di nuovo allargato e in quel punto probabilmente toccava un chilometro d’ampiezza. La corrente pareva veloce, ma non particolarmente infida. Il periodo di lavoro nelle chiatte sul Kans mi aveva insegnato a leggere il fiume alla ricerca di mulinelli, insidie nascoste, banchi di sabbia e simili: il fiume pareva facile da navigare.

«Puntate più o meno verso est-sudest» disse il comlog. «Velocità, sessantotto chilometri all’ora. I sensori indicano che il campo deflettore del tappeto hawking è all’otto percento. L’altitudine…»

— Va bene, va bene — tagliai corto. — Est-sudest. — Il sole calava alle nostre spalle: la rotazione del pianeta era analoga a quella della Vecchia Terra e di Hyperion.

Il fiume tornò rettilineo e io accelerai un poco. Nel labirinto di Hyperion avevo corso a quasi trecento all’ora, ma non avevo nessuna voglia di ripetere l’esperienza, se non era indispensabile. La carica dei fili di volo del tappeto aveva una buona durata, ma non c’era motivo di consumarla più rapidamente del necessario. Presi l’appunto mentale di ricaricare i fili dalle batterie della nave, prima della partenza, anche se avessimo scelto come mezzo di trasporto le aerociclette.

— Guarda! — disse Aenea, indicando qualcosa alla nostra sinistra.

Lontano, verso nord, illuminata dal sole chiaramente al tramonto, qualcosa di simile alla sommità di una mesa o a una costruzione umana molto grande sbucava dal baldacchino della giungla.

— Andiamo a dare un’occhiata? — disse Aenea.

Non ero del tutto uno sprovveduto. Avevamo un obiettivo, un limite di tempo (il tramonto del sole, per essere precisi) e mille altre ragioni per non correre rischi svolazzando intorno a bizzarre costruzioni. Per quanto potevamo saperne noi, la mesa o torre era il quartier generale della Pax sul pianeta.

— Certo — risposi, prendendomi mentalmente a calci: ero proprio un idiota. Ma virai a nord.

La mesa si trovava più lontano di quanto non sembrasse. Spinsi il tappeto hawking a duecento all’ora e tuttavia impiegammo dieci minuti buoni per arrivare nelle vicinanze.

«Mi scusi, signor Endymion» disse la voce della nave «ma a quanto pare siete usciti di rotta e ora andate a nord-nordest, con uno scostamento di circa 103 gradi dalla precedente direzione.»

— Vogliamo esaminare una torre, o affioramento roccioso, o che diavolo è, che sporge dalla giungla quasi direttamente a nord rispetto a noi — dissi. — La rilevi sul radar?

«Negativo» rispose la nave: credetti di cogliere di nuovo nel suo tono una certa ironia. «Il mio punto d’osservazione, qui conficcata nel fango, non è dei migliori. Qualsiasi cosa sotto un angolo di 28 gradi rispetto all’orizzonte si perde in immagini spurie. Voi vi trovate appena al di sopra del mio angolo di rilevamento. Ancora venti chilometri a nord e vi perderò.»

— Niente paura — dissi. — Diamo solo un’occhiata a quell’affare e torniamo subito al fiume.

«Perché?» domandò la nave. «Perché investigare una cosa che non ha niente a che fare col piano di viaggio a valle del fiume?»

Aenea si sporse e mi prese il polso. — Siamo esseri umani — disse nel comlog.

La nave non replicò.

La cosa, quando infine fummo vicini, si alzava a picco per cento metri sopra il baldacchino della giungla. La parte inferiore era circondata dalle gimnosperme giganti, tanto fitte da dare l’impressione che la cima fosse una rupe corrosa dalle intemperie che sporgesse da un mare verde.

Pareva naturale e artificiale insieme… o almeno modificata da chissà quale organismo intelligente. Era una torre larga circa settanta metri e pareva fatta di roccia rossastra, forse arenaria. Il sole al tramonto (solo una decina di gradi sopra l’orizzonte ora costituito dalla giungla) bagnava la rupe d’intensa luce rossa. Qua e là lungo le pareti est e ovest c’erano aperture che sulle prime ritenemmo naturali, scavate dal vento o dall’acqua; ma presto capimmo che erano artificiali. Sempre nella parete est c’erano delle nicchie, poste quasi alla giusta distanza l’una dall’altra per fare da gradini e da appigli per piedi e mani. Ma erano poco profonde, strette: la semplice idea di scalare quella rupe di cento e passa metri avvalendomi solo di quegli appigli mi fece contrarre le viscere.