Comunque, meno di cinque minuti dopo, il campo si eliminò lentamente. Le luci si accesero, tremolarono, furono sostituite dalle luci rosse d’emergenza, mentre noi venivamo gentilmente calati su quella che poco prima era stata la parete. Lo scafo divenne di nuovo trasparente, ma ben poca luce riuscì a penetrare tra il fango e i detriti.
Dalla mia posizione non ero riuscito a vedere A. Bettik e Aenea (si trovavano fuori del mio campo visivo bloccato) ma ora li vidi, mentre il campo li calava con me sullo scafo. Con sorpresa udii un urlo scaturirmi dalla gola e capii che era lo stesso urlo che avevo cercato d’emettere nell’attimo del disastro.
Per un momento tutt’e tre ci limitammo a stare contro la parete ricurva dello scafo e a massaggiarci braccia, gambe, testa, per assicurarci d’essere ancora interi. Poi Aenea parlò per tutti. — Merda santa! — disse. Si alzò sul pavimento ricurvo. Le tremavano le gambe.
— Nave! — chiamò l’androide.
«Sì, A. Bettik.» La voce aveva la calma di sempre.
— Sei danneggiata?
«Sì, A. Bettik. Ho appena completato l’esatta stima dei danni. Le bobine dei campi, i repulsori e i traslatori Hawking hanno riportato danni estesi, al pari della sezione di scafo di prua e di due delle quattro pinne caudali.»
— Nave — dissi, tirandomi in piedi a fatica e guardando dal muso trasparente della nave: dalla parete ricurva sopra di noi proveniva la luce del sole, ma gran parte dello scafo era opaco per il fango, la sabbia e altri detriti. L’acqua scura del fiume arrivava a due terzi dei fianchi e sciaguattava contro la nave. Pareva che ci fossimo arenati su un banco di sabbia, ma non prima di arare parecchi metri di fondo. — Nave, i tuoi sensori funzionano?
«Solo radar e sensori ottici.»
— Siamo inseguiti? Qualche nave della Pax ha varcato con noi il portale?
«No. Nel raggio del mio radar non ci sono bersagli inorganici a terra o in aria.»
Aenea andò alla parete verticale che era stata il pavimento coperto dal tappeto. — Neppure soldati? — domandò.
«No» rispose la nave.
— Il teleporter è ancora funzionante? — domandò A. Bettik.
«No. Il portale ha smesso di funzionare diciotto nanosecondi dopo il nostro passaggio.»
Allora mi rilassai un poco e guardai la bambina, per controllare che non fosse ferita. A parte i capelli in disordine e la luce d’entusiasmo negli occhi, pareva normale. Mi sorrise. — Allora, Raul, come usciamo da qui?
Guardai in alto e capii che cosa voleva dire. Il pozzo centrale si trovava circa tre metri sopra la nostra testa. — Nave? — dissi. — Puoi rimettere in funzione i campi interni quanto basta per farci uscire dalla nave?
«Mi spiace» rispose la nave. «I campi sono guasti e ci vorrà del tempo per ripararli.»
— Puoi metamorfosare un’apertura nello scafo sopra di noi? — Sentivo tornare la sensazione di claustrofobia.
«No, purtroppo. Al momento funziono a batteria e non dispongo dell’energia necessaria per metamorfosare. La camera stagna principale però funziona. Se riuscite a raggiungerla, vi apro il portello.»
Ci guardammo. — Magnifico — dissi poi. — Strisciare per trenta metri di nave dove ogni cosa è di traverso!
Aenea guardava ancora il pozzo della scala. — Qui la gravità è diversa… la sentite?
Solo allora me ne resi conto. Ogni cosa pareva più leggera. Forse l’avevo già notato e l’avevo attribuito a una variazione del campo interno… ma il campo interno non c’era più. Eravamo su di un mondo diverso, con gravità diversa! Mi ritrovai a fissare la bambina.
— Vorresti dire che possiamo volare fin lassù? — dissi, indicando il letto imbullonato alla "parete" e il pozzo della scala lì vicino.
— No, ma qui la gravità sembra inferiore a quella di Hyperion. Voi due mi lanciate lassù, io vi getto qualcosa e poi strisciamo fino alla camera stagna.
Andò proprio così. A. Bettik e io unimmo le mani, formammo una staffa, sollevammo Aenea fino al bordo del pozzo della scala, dove lei rimase in equilibrio, allungò la mano, tirò via dal letto la coperta penzolante, la legò alla ringhiera e lasciò cadere l’estremità verso di noi; A. Bettik e io ci tirammo su e tutt’e tre camminammo in precario equilibrio sul palo centrale del pozzo, reggendoci alla scala a chiocciola di lato e sopra di noi per mantenere l’equilibrio; a poco a poco avanzammo nella confusione illuminata di rosso… attraverso la biblioteca dove libri e cuscini erano caduti nella parte inferiore dello scafo nonostante le corde di ritegno negli scaffali, attraverso l’area della piazzola olografica dove lo Steinway era ancora al suo posto grazie ai bulloni di fissaggio ma dove i nostri bagagli erano rotolati in fondo alla nave. Qui facemmo una sosta, mentre mi calavo sul fondo dello scafo ingombro di roba per recuperare lo zaino e le armi lasciate sul divano. Mi agganciai alla cintura la rivoltella, lanciai agli altri la fune presa dallo zaino e mi sentii un po’ più pronto ad affrontare gli eventi.
Giunti nel corridoio, vedemmo che ciò che aveva danneggiato la zona motori più in basso aveva anche seminato il disordine negli armadi: alcuni tratti del corridoio erano anneriti e gonfiati verso l’esterno, il contenuto degli armadi era sparpagliato lungo le paratie lacerate. Il portello interno della camera stagna era aperto, ma ora si trovava alcuni metri sopra di noi. Fui costretto ad arrampicarmi nell’ultimo tratto verticale di corridoio e a lanciare la corda agli altri, restandomene acquattato sulla soglia del portello interno. Poi saltai sullo scafo esterno e mi tirai fuori, nella vivida luce del sole; infilai la mano nella camera stagna illuminata di luce rossa, trovai il polso di Aenea e tirai fuori la bambina. Un secondo dopo, feci la stessa cosa con A. Bettik. Solo allora ci guardammo intorno.
Un bizzarro mondo nuovo! Non riuscirò mai a descrivere il brivido d’eccitazione che mi percorse in quel momento: nonostante il disastro, nonostante la difficile situazione, nonostante tutto, in quel momento guardavo un mondo nuovo! L’effetto su di me fu molto più intenso di quanto non mi fossi aspettato in previsione di un viaggio interstellare. Il pianeta era molto simile a Hyperion: aria respirabile, cielo azzurro (anche se di una tonalità molto più chiara del lapislazzuli di Hyperion) riccioli di nuvole, il fiume dietro di noi (più ampio di quanto non fosse su Vettore Rinascimento) e sulle rive la giungla, estesa a perdita d’occhio sulla destra, interrotta dal portale coperto di rampicanti sulla sinistra. Davanti a noi, la prua della nave aveva davvero arato il fondo del fiume e si era arenata su di una lingua di sabbia; da lì la giungla ricominciava e ricopriva ogni cosa, simile a un verde e sbrindellato sipario su di uno stretto palcoscenico.
Ma per quanto la descrizione possa suonare familiare, tutto era bizzarro: gli odori nell’aria erano insoliti, la gravità pareva strana, la luce del sole era un po’ troppo vivida, gli "alberi" della giungla non somigliavano a niente che avessi visto (gimnosperme dalle foglie piumate, li avrei descritti in quel momento) e in alto stormi di fragili uccelli bianchi, di un tipo per me nuovo, agitavano le ali per volare via al rumore del nostro goffo ingresso in quel mondo.
Risalimmo a piedi lo scafo verso la spiaggia. La brezza arruffava i capelli di Aenea e mi gonfiava la camicia. L’aria portava pungenti aromi di spezie… tracce di cinnamomo e di timo, forse… ma più delicati e più intensi. Dall’esterno la prua della nave non era trasparente, ma a quel tempo non sapevo se la nave aveva reso di nuovo opaca la propria pelle oppure se dall’esterno non era mai trasparente. Anche rovesciato sul fianco, lo scafo era troppo alto e troppo ripido per consentirci di scendere scivoloni, ma per fortuna aveva scavato un profondo solco nella sabbia della spiaggia; sfruttai di nuovo la fune per calare a terra A. Bettik, poi calai Aenea e infine mi misi in spalla lo zaino (sormontato dalla carabina al plasma, ripiegata) e mi lasciai scivolare lungo lo scafo; rotolai sulla sabbia compatta per attutire il colpo.