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Su Hyperion non esistevano astronavi private né astronavi fuori posto. Ne ero sicuro. I veicoli spaziali, anche del semplice tipo planetario, erano troppo costosi e troppo rari perché rimanessero abbandonati in vecchie torri di pietra. In un certo momento, secoli prima della Caduta, quando le risorse della Rete dei Mondi parevano illimitate, c’era stata forse una pletora di veicoli spaziali… navi militari della FORCE, diplomatiche dell’Egemonia, governative dei vari pianeti; navi di enti pubblici, di fondazioni; navi per la colonizzazione; addirittura alcune navi private di eccentrici ipermiliardari… ma perfino in quei tempi solo un’economia a livello planetario poteva permettersi di costruire un’astronave. In vita mia (e nella vita di mia madre e di mia nonna e delle loro madri e nonne) solo la Pax, il consorzio fra la Chiesa e un appena abbozzato governo interstellare, poteva permettersi navi spaziali. E nessun individuo nell’universo conosciuto, neppure Sua Santità su Pacem, poteva permettersi un’astronave privata.

Ma quella davanti a me era un’astronave. Lo sapevo. Non chiedetemi come facessi: lo sapevo e basta.

Senza badare al rovinoso stato dei gradini, andai su e giù per la scala a chiocciola. Lo scafo si trovava a quattro metri da me. Il suo insondabile colore nero mi dava le vertigini. Quindici metri più in basso, appena visibile al limitare della curva che lo nascondeva, un pianerottolo si protendeva fin quasi a toccare lo scafo.

Scesi di corsa. Un gradino si sbriciolò sotto i miei piedi, ma scendevo a tale velocità che me ne accorsi appena.

Il pianerottolo non aveva ringhiera, si protendeva come un trampolino. Se fossi caduto, mi sarei di sicuro rotto qualche osso e sarei rimasto nel buio in una torre murata. Non ci pensai minimamente; andai avanti e posai la mano contro lo scafo della nave.

Lo scafo era tiepido. Non dava la sensazione del metallo, pareva piuttosto la liscia pelle di una creatura addormentata. L’impressione era accresciuta da un lieve movimento: lo scafo vibrava, come se la nave respirasse. Mi pareva si sentire sotto la mano il battito di un cuore.

All’improvviso ci fu vero movimento: lo scafo si ripiegò… senza alzarsi col movimento meccanico di certi portali da me visti e di sicuro senza ruotare su cardini; si ripiegò su se stesso, semplicemente, come labbra che scoprano i denti.

Si accesero delle luci. Un corridoio interno, il cui soffitto e le cui pareti erano organici come la fuggevole visione di un collo d’utero meccanico, brillò di luce soffusa.

Esitai circa tre nanosecondi. Per anni la mia vita era stata tranquilla e prevedibile come quella della maggior parte della gente. L’ultima settimana avevo accidentalmente ucciso un uomo, ero stato condannato e giustiziato, mi ero risvegliato nella storia preferita di Nonna. Perché fermarmi lì?

Entrai nella nave spaziale. La porta si ripiegò alle mie spalle, simile a una bocca affamata che si chiuda sopra un pezzetto di cibo.

Il corridoio era diverso da come mi sarei aspettato. Avevo sempre creduto che l’interno dei veicoli spaziali fosse simile alla stiva delle imbarcazioni per il trasporto truppe che avevano trasferito a Ursus il nostro reggimento della Guardia Nazionale: metallo grigio, bulloni, portelli chiusi da grappe, sibilanti tubazioni di vapore. Lì non si vedeva niente di simile. Il corridoio era liscio, ricurvo, quasi informe; le pareti erano rivestite d’ottimo legno, tiepido e organico come carne. Se c’era una camera stagna, non l’avevo vista. Luci nascoste si accendevano man mano che avanzavo e si spegnevano dopo il mio passaggio, lasciandomi in una piccola pozza di luce, con il buio davanti e dietro. La nave non poteva avere un diametro superiore ai dieci metri, ma la lieve curvatura del corridoio dava l’impressione che fosse più ampia di quanto non sembrasse dall’esterno.

Il corridoio terminava in quello che doveva essere il centro della nave: un pozzo con al centro una scala a chiocciola metallica che si perdeva nel buio, in alto e in basso. Posai il piede sul primo gradino e dall’alto provenne luce. Immaginavo che le parti più interessanti della nave si trovassero in alto e perciò iniziai la salita.

Il primo ponte occupava l’intera sezione della nave e conteneva un’antiquata piazzola di proiezione olografica del tipo che avevo visto in vecchi libri, alcune sedie e alcuni tavolini in uno stile che non conoscevo e un pianoforte a coda. Qui dovrei dire che neppure una persona su diecimila, nata su Hyperion, avrebbe riconosciuto in quel mobile un pianoforte… e soprattutto un pianoforte a coda. Sia mia madre sia Nonna erano appassionate di musica e un pianoforte riempiva gran parte dello spazio di uno dei nostri carrozzoni a batteria. Molte volte avevo sentito zii e nonno lamentarsi dell’ingombro e del peso dello strumento, parlando di tutti i joule d’energia sprecati per trasportare nelle brughiere di Aquila quel pesante aggeggio pre-Egira e del comune buon senso di tenere invece un sintetizzatore tascabile in grado di creare la musica di qualsiasi pianoforte e di ogni altro strumento. Ma mia madre e Nonna erano ostinate: niente al mondo avrebbe uguagliato il suono di un vero pianoforte, anche se andava accordato dopo ogni spostamento. E il nonno e gli zii non si lamentavano, quando di notte, intorno al fuoco, Nonna suonava Rachmaninoff o Bach o Mozart. Da lei imparai molte cose sui migliori pianoforti della storia… compresi i pianoforti a coda pre-Egira. Ora ne avevo uno sotto gli occhi.

Non badai alla piazzola di proiezione e al mobilio, non badai alla parete trasparente che mostrava solo le scure pietre della torre: mi accostai al pianoforte. La scritta dorata sopra la tastiera diceva: STEINWAY. Emisi un fischio e accarezzai i tasti, senza il coraggio di premerne uno. Secondo Nonna, quella ditta aveva smesso di fabbricare pianoforti ancora prima del Grande Errore del ’38 e dopo l’Egira nessun altro pianoforte era stato fabbricato. Toccavo uno strumento antico almeno mille anni. Gli Steinway e gli Stradivari erano una leggenda, fra noi appassionati di musica. Possibile che quel pianoforte fosse autentico? mi domandai, sfiorando i tasti che davano la sensazione del leggendario avorio… le zanne di un animale estinto, detto elefante. Esseri umani come il vecchio poeta potevano forse sopravvivere dai giorni pre-Egira (in teoria una simile eventualità era plausibile, grazie ai trattamenti Poulsen e alla sospensione criogenica), ma un manufatto di legno, di corde metalliche e d’avorio aveva ben poche possibilità di compiere quel lungo viaggio nel tempo e nello spazio.

Suonai un accordo: do-mi-sol-si bemolle. E poi un accordo in do maggiore. Il tono era privo di pecche, l’acustica della spazionave era perfetta. Il nostro vecchio piano verticale aveva bisogno d’essere accordato da Nonna dopo ogni spostamento di qualche miglio nelle brughiere, ma questo strumento pareva accordato alla perfezione, anche dopo un viaggio d’innumerevoli secoli e anni luce.

Presi lo sgabello, mi sedetti e cominciai a suonare Per Elisa. Un brano sdolcinato, semplice, ma mi pareva adatto al silenzio e alla solitudine di quel luogo buio. A dire il vero, le luci parvero attenuarsi intorno a me, mentre le note riempivano la sala circolare ed echeggiavano su e giù nel buio pozzo delle scale. Pensai a Mamma e a Nonna: non avrebbero mai immaginato che le mie prime lezioni di piano m’avrebbero condotto a quell’a solo in una nave spaziale nascosta. La tristezza di quel pensiero parve contagiare la musica.

Al termine, staccai di scatto le dita dalla tastiera, quasi con un senso di colpa per la mia presunzione: suonare così malamente, su quel magnifico pianoforte, su quel dono del passato, un pezzo così semplice. Rimasi nel silenzio qualche momento, facendomi domande sulla nave, sul vecchio poeta, sul mio posto in quel folle disegno.

«Molto bello» disse piano una voce alle mie spalle.