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Si avvicinò al banco. «Vuole un budino?» chiese il giovane magro.

«No. No, grazie. C’è qualche posto nei paraggi dove potrei noleggiare una macchina? La mia mi ha mollato definitivamente a piedi a un bel pezzo da qui.»

Il giovane si grattò la testa rasata. «Non da queste parti. Se la macchina è guasta chiami Triple-A. Oppure chieda a quelli della pompa di benzina di trainargliela.»

«Buona idea» disse Shadow. «Grazie.»

Attraversò la strada coperta di neve fangosa e arrivò al benzinaio. Comperò qualche merendina, bastoncini di carne secca e altri scaldini chimici.

«C’è un posto dove noleggiare una macchina, nei paraggi?» chiese alla cassiera. Era una donna decisamente grassoccia, con gli occhiali e una gran voglia di chiacchierare.

«Mi faccia pensare» disse. «Qui siamo un po’ fuori mano. A Madison ci sono degli autonoleggi. Dov’è diretto?»

«Cai-ro» disse lui. «Ovunque esso sia.»

«Lo so io dov’è. Mi passi una di quelle cartine dell’Illinois lì sullo scaffale.» Shadow le passò una cartina plastificata. Lei l’aprì e indicò trionfante un punto nell’angolo più basso dello stato. «Eccolo qui.»

«Il Cairo?»

«Quella è in Egitto. Ma a Little Egypt c’è Cairo. C’è anche una Thebes, e non solo. Mia cognata è di Thebes. Un giorno le ho chiesto se sapeva niente della Tebe in Egitto e lei mi ha guardato come se mi mancasse una rotella.» La donna ridacchiò come una matta.

«Ci sono anche le piramidi?» La città si trovava a più di settecento chilometri a sud.

«Non che io sappia. Lo chiamano Little Egypt perché cento o forse centocinquant’anni fa c’è stata una carestia. Tutti i raccolti rovinati. Laggiù invece i campi stavano bene e così tutti ci andavano a comperare da mangiare. Come nella Bibbia. Come nel musical Joseph and the Technicolor Dreamcoat. Trallallà, l’Egitto eccolo qua.»

«Al mio posto, dovendo arrivare fin lì, come ci andrebbe?»

«Ci andrei in macchina.»

«La mia si è rotta a qualche chilometro da qui. Era un rottame di merda, scusi l’espressione.»

«Erre-di-emme» disse lei. «Già. Così le chiama mio cognato. Compra e vende macchine, ma in piccolo. Arriva e dice: Mattie, ho appena venduto un’altra erre-di-emme. Magari è interessato alla sua. Per recuperare i pezzi, o qualcosa del genere.»

«È del mio capo» rispose Shadow sorprendendosi della disinvoltura con cui sciorinava una bugia dietro l’altra. «In realtà dovrei chiamarlo e dirgli di venire a riprendersela.» Fu folgorato da un’idea. «Vive nei paraggi suo cognato?»

«Sta a Muscoda. A dieci minuti da qui. Dall’altra parte del fiume. Perché?»

«Be’, può darsi che abbia un’erre-di-emme da vendermi per, diciamo, cinque o seicento dollari.»

La donna sorrise con dolcezza. «Caro lei, mio cognato non na niente di niente, nel suo parcheggio, che costi più di cinquecento dollari con il pieno di benzina. Però non gli dica che gliel’ho detto io.»

«Potrebbe telefonargli?»

«Fatto» rispose lei, e alzò il ricevitore. «Tesoro? Sono Mattie. Vieni subito. C’è qui un cliente che vuole comprare una macchina.»

Il rottame scelto da Shadow era una Chevy Nova del 1983 e la comperò, con il pieno, per quattrocentocinquanta dollari. Sul contachilometri c’era scritto duecentocinquantamila, e puzzava leggermente di bourbon e tabacco e, soprattutto, di banane. Non avrebbe saputo dire di che colore fosse, sotto lo strato di sporcizia e di neve. Eppure, di tutti i veicoli a disposizione nel parcheggio del cognato di Mattie, gli era sembrata l’unica capace di fare ancora settecento chilometri.

La compravendita venne conclusa in contanti e il cognato di Mattie non si sognò nemmeno di chiedergli un documento o il codice fiscale.

Shadow guidò verso ovest, poi verso sud, con cinquecentocinquanta dollari in tasca, tenendosi lontano dall’Interstate. Il rottame era fornito di radio, ma quando la si accendeva non dava segni di vita. Un cartello gli annunciò che aveva lasciato il Wisconsin e adesso si trovava in Illinois. Passò davanti a una miniera a cielo aperto, enormi archi di luce azzurra che bruciavano nel pallido chiarore di un mattino d’inverno.

Si fermò a mangiare in un posto che si chiamava Mom’s, appena in tempo prima che chiudessero per la pausa pomeridiana.

In ogni città che attraversava, accanto al cartello con la scritta benvenuti a Our Town (720 ab.), ce n’era un altro che informava che la locale squadra under 14 di pallacanestro era arrivata terza nel campionato nazionale, oppure che la cittadina aveva dato i natali alle semifinaliste della squadra di wrestling under 16.

Continuò a guidare, malgrado gli ciondolasse la testa, sentendosi più esausto a ogni minuto che passava. Prese un rosso rischiando di essere travolto da una Dodge guidata da una donna. Appena arrivato in aperta campagna si infilò in un sentiero laterale usato dai trattori ma deserto, a quell’ora, e si fermò sul ciglio di un campo coperto di stoppie spruzzate di neve. Una lunga fila di tacchini selvatici grassi e neri lo stava attraversando lentamente, sembravano i dolenti dietro al carro funebre; Shadow spense il motore, si sdraiò sul sedile posteriore e si addormentò.

Oscurità, la sensazione di cadere… sembrava che stesse capitombolando in un grande buco, come Alice. Cadde per cent’anni nell’oscurità. Tante facce gli passarono accanto, fluttuanti nel buio, ma furono strappate via prima che le potesse toccare…

Brutalmente, aveva smesso di cadere. Adesso era in una caverna e non era più solo. Fissò dentro due occhi che gli erano familiari: grandi, liquidi, neri. Gli occhi si chiusero esi riaprirono.

Sottoterra: sì. Ricordava quel luogo. L’odore di vacca bagnata. Il fuoco vacillava sulle pareti umide della caverna, illuminando la testa di bufalo, il corpo d’uomo, la pelle del colore dei mattoni d’argilla.

«Non potete lasciarmi in pace?» chiese Shadow. «Voglio soltanto dormire.»

L’uomo-bufalo annuì lentamente. Non mosse la labbra, ma una voce nella testa di Shadow domandò: «Dove vai?».

«A Cairo.»

«Perché?»

«Dove potrei andare? È lì che mi manda Wednesday. Ho bevuto il suo idromele.» Nel sogno, dove regnava la logica onirica, il vincolo sembrava incontestabile: aveva bevuto l’idromele di Wednesday tre volte, suggellando il patto. Cos’altro avrebbe potuto fare?

Quando l’uomo con la testa di bufalo mise una mano nel fuoco per muovere rami e tizzoni, si alzò una fiammata. «C’è tempesta, in arrivo» disse. Si pulì sul petto glabro le mani sporche di cenere, lasciandovi strisce nere di fuliggine.

«Non fate che ripetermelo. Posso chiedere una cosa?»

Durante la pausa di silenzio che seguì una mosca andò ad appoggiarsi sulla fronte pelosa dell’uomo-bufalo che la scacciò con una mano. «Chiedi.»

«Ma è vero? Queste persone sono davvero dèi? È tutto talmente…» Si interruppe. Poi aggiunse: «impossibile», che non era esattamente la parola che stava cercando, ma gli sembrava la meno peggio.

«Cosa sono gli dèi?» chiese l’uomo-bufalo.

«Non so» rispose Shadow.

Si sentivano dei colpi, implacabili e monotoni. Shadow aspettò che l’uomo-bufalo dicesse ancora qualcosa, che gli spiegasse cos’erano gli dèi, che sbrogliasse tutto l’intricato incubo che era diventato la sua vita. Aveva freddo.

Toc. Toc. Toc.

Aprì gli occhi e faticosamente si mise seduto. Era intirizzito e fuori il cielo aveva assunto quella luminosa tonalità di rosso profondo che separa il crepuscolo dalla notte.

Toc. Toc. Qualcuno disse: «Ehi, signore», e Shadow girò la testa. Il qualcuno che aveva parlato era in piedi vicino al finestrino, un’ombra appena più scura del cielo. Shadow allungò un braccio e riuscì ad abbassare il vetro di qualche centimetro. Dopo aver prodotto qualche suono per svegliarsi disse: «Salve».

«Ti senti bene? Sei malato? Hai bevuto?» Era una voce acuta, da donna o da ragazzo.