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Ansimando profondamente si lasciò cadere sul ghiaccio sottile, pur sapendo che ormai non avrebbe resistito a lungo neanche quel pezzo. I suoi pensieri erano lenti e densi come sciroppo.

«Lasciatemi qua» cercò di dire. «Me la caverò.» Parlava strascicando le parole.

Aveva bisogno di riposare un momento, tutto lì, voleva riposare e poi si sarebbe alzato per mettersi in salvo. Era evidente che non poteva restare lì per sempre.

Sentì uno strattone, dell’acqua sulla faccia. Qualcuno gli sollevò la testa. Si accorse che lo trascinavano sulla schiena, avrebbe voluto protestare, spiegare che aveva bisogno di riposare un po’ — magari fare un sonnellino, era chiedere troppo? — e che dopo si sarebbe ripreso. Se soltanto l’avessero lasciato in pace.

Non credeva di essersi addormentato, comunque era in piedi in mezzo a una grande prateria con un uomo con la testa e le spalle di un bufalo e una donna con la testa di un enorme condor, e c’era anche Whiskey Jack tra i due che lo guardava con tristezza scuotendo la testa.

Whiskey Jack gli voltò le spalle e si allontanò lentamente. L’uomo-bufalo si allontanò con lui. La donna uccello di tuono si avviò, poi piegò la testa e con un colpo d’ali planò.

Shadow si sentiva perduto. Avrebbe voluto chiamarli, implorarli di tornare, di non abbandonarlo, ma tutto stava diventando informe: se n’erano andati, la prateria sbiadiva e ogni cosa divenne vuota.

Sentiva un gran male. Era come se ogni cellula del suo corpo, ogni nervo, si stesse scongelando e risvegliando, rendendo nota la sua presenza con un bruciore doloroso.

Una mano dietro la testa lo teneva per i capelli, un’altra gli sosteneva il mento. Aprì gli occhi convinto di trovarsi in ospedale.

Aveva i piedi nudi, indossava ancora i jeans ma era nudo dalla cintola in su. L’aria era satura di vapore. Vedeva uno specchio da barba su un muro di fronte e una bacinella, uno spazzolino azzurro dentro un bicchiere sporco di dentifricio.

Le informazioni venivano processate lentamente dal cervello, un dato per volta.

Gli bruciavano le dita delle mani. Gli bruciavano le dita dei piedi.

Cominciò a gemere.

«Buono, Mike. Buono, adesso» disse una voce conosciuta.

«Come?» cercò di dire. «Cos’è successo?» La sua voce suonava innaturale.

Era immerso in una vasca da bagno piena d’acqua calda. Lui credeva che l’acqua fosse calda, però non ne era certo. Gli arrivava fino al collo.

«La cosa più stupida che si può fare con qualcuno che sta morendo per congelamento è metterlo davanti al fuoco. La seconda cosa più stupida è avvolgerlo nelle coperte, specialmente se i vestiti che porta sono già bagnati. Le coperte lo isolerebbero, trattenendo il freddo all’interno. La terza cosa più stupida — questa è la mia opinione personale — è di togliergli tutto il sangue, riscaldarlo e rimetterglielo dentro. È quello che fanno i medici oggigiorno. Complicato, costoso. Stupido.» La voce arrivava dall’alto, da dietro.

«La cosa più intelligente e più rapida da fare è quello che per secoli hanno fatto i marinai quando un uomo cadeva in mare. Metti il poveraccio dentro l’acqua calda. Non troppo calda. Calda giusta. Adesso, per tua informazione, quando ti ho trovato sul ghiaccio eri sostanzialmente morto. Come ti senti, Houdini?»

«Fa male» rispose Shadow. «Fa male dappertutto. Mi ha salvato la vita.»

«Credo di sì. Riesci a tenere su la testa da solo?»

«Forse.»

«La lascio andare. Se affondi ti riacciuffo.»

Le mani lasciarono la presa.

Shadow si accorse di scivolare piano piano verso il basso. Allungò le mani, afferrò i bordi della vasca e poi appoggiò la schiena. Il bagno era piccolo, la vasca di metallo aveva lo smalto coperto di macchie e di graffi.

Un vecchio entrò nel suo campo visivo. Aveva l’aria preoccupata.

«Ti senti meglio?» chiese Hinzelmann. «Stai lì tranquillo. Ti ho riscaldato ben bene il salotto. Quando te la senti ti presto un accappatoio così posso mettere i pantaloni nell’asciugatrice insieme al resto. D’accordo, Mike?»

«Non mi chiamo Mike.»

«Se lo dici tu.» Il vecchio contrasse la faccia da folletto in un’espressione di disagio.

Shadow aveva perso il senso del tempo: rimase nella vasca fino a quando non riuscì a flettere le dita delle mani e dei piedi senza sentire troppo male. Hinzelmann lo aiutò ad alzarsi e fece scaricare l’acqua. Shadow sedette su un angolo della vasca e con l’aiuto del vecchio si sfilò i pantaloni.

Riuscì a mettersi senza eccessiva difficoltà un accappatoio di spugna troppo piccolo e, sempre appoggiandosi a Hinzelmann, andò a buttarsi su un antico divano nel salotto. Era stanco, debole, profondamente affaticato ma vivo. Nel camino bruciavano alcuni ceppi. Teste di daino dall’aria sorpresa occhieggiavano impolverate dalle pareti, contendendo lo spazio ad alcuni enormi pesci laccati.

Hinzelmann si allontanò con i suoi pantaloni e dopo una breve pausa dalla stanza vicina giunse il rumore sferragliante dell’asciugatrice. Il vecchio tornò con una tazza fumante.

«È caffè» disse, «che è uno stimolante. Ci ho messo un goccio di schnapps. Soltanto un goccio. È quello che si faceva una volta. Un medico oggi non lo consiglierebbe.»

Shadow prese la tazza con entrambe le mani. Su un lato c’era disegnata una zanzara e la frase "Donate sangue-Visitate il Wisconsin!".

«Grazie» disse.

«È a questo che servono gli amici» ribatté Hinzelmann. «Un giorno potresti essere tu a salvarmi la vita. Ma non pensiamoci adesso.»

Shadow sorseggiò il caffè. «Credevo di essere morto.»

«Sei stato fortunato. Ero sul ponte — avevo immaginato che il gran giorno sarebbe stato oggi, te lo senti, a un certo punto, quando hai la mia età — così ero lì con il mio orologio quando ti ho visto uscire. Ho gridato, ma sicuramente non mi hai sentito. Ho visto la macchina andare giù e ti ho visto andar giù con lei e ho pensato che eri perduto. Sono corso sul ghiaccio. Mi hai fatto vedere i sorci verdi. Devi essere rimasto sott’acqua quasi due minuti. Poi ho visto la mano che spuntava nel punto dov’era la macchina, è stato come vedere un fantasma…» Si interruppe. «Per fortuna che il ghiaccio ha retto mentre ti trascinavo a riva.»

Shadow annuì.

«È stato bravissimo» disse a Hinzelmann, e il vecchio sorrise radioso con la sua faccia da folletto.

Shadow sentì chiudersi una porta. Continuò a sorseggiare il caffè.

Adesso che riusciva a pensare più lucidamente cominciava a farsi delle domande.

Si chiedeva per esempio come avesse fatto un uomo anziano, alto metà di lui e pesante forse un terzo a trascinarlo svenuto sul ghiaccio fino alla macchina. Si domandava come avesse fatto a portarlo in casa e a infilarlo nella vasca.

Hinzelmann si avvicinò al camino e con le pinze mise un ceppo sottile nel fuoco.

«Vuole sapere che cosa stavo facendo sul ghiaccio?»

Hinzelmann scrollò le spalle. «Non sono affari miei.»

«Sa, non capisco…» Shadow esitò per mettere ordine nei pensieri, «non capisco perché mi abbia salvato la vita.»

«Be’» disse Hinzelmann, «perché è così che sono stato cresciuto, se vedi qualcuno nei guai…»

«No» lo interruppe Shadow. «Non è questo che intendevo. Voglio dire, lei ha ammazzato tutti quei bambini, ogni inverno un bambino. Ero l’unico ad averlo capito. Deve aver visto che aprivo il bagagliaio. Perché non mi ha lasciato annegare?»

Hinzelmann piegò la testa e si grattò pensieroso il naso ondeggiando avanti e indietro come se stesse riflettendo. «Be’» disse, «è una buona domanda. Credo di averlo fatto perché ero in debito con un certo individuo. E io sono uno che paga i debiti.»

«Wednesday?»

«Esatto, lui.»

«C’era una ragione per cui dovevo nascondermi proprio a Lakeside, vero? Una ragione per cui nessuno sarebbe mai riuscito a trovarmi?»

Hinzelmann non disse niente. Sganciò un pesante attizzatoio nero dal muro e attizzò il fuoco, facendo alzare una nube di scintille e fumo. «Questa è casa mia» rispose in tono petulante. «È una buona città.»