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La mano gli faceva male ma il finestrino era rimasto intatto.

Pensò di prendere la rincorsa e dare un calcio al vetro; certo così sarebbe riuscito a romperlo, se non fosse scivolato. L’ultima cosa che desiderava era disturbare troppo la bagnarola facendo cedere il ghiaccio su cui era appoggiata.

La guardò. Poi si avvicinò all’antenna della radio — il tipo di antenna che sale e scende, bloccata in alto da almeno dieci anni — e dopo averla un po’ scossa riuscì a spezzarla alla base. Afferrò l’estremità più sottile, dove una volta doveva esserci stato un pulsantino metallico ormai scomparso, e la piegò a gancio.

Riuscì a infilarla tra il vetro e la gomma di protezione del finestrino spingendola fino alla sicura. Armeggiò, annaspò alla cieca fino a quando il gancio di metallo non si strinse intorno alla chiusura, e a quel punto tirò.

Sentì che il gancio improvvisato perdeva la presa.

Sospirò e ripeté l’operazione, più lentamente, con più attenzione. Gli sembrava di sentire il ghiaccio lamentarsi quando spostava il peso da un piede all’altro. E piano… piano…

L’aveva agganciato. Tirò verso l’alto e la sicura della portiera scattò. Shadow cercò di aprirla con la mano guantata, impugnò la maniglia e tirò; la portiera non cedeva.

È bloccata, pensò, congelata. Per questo non si apre.

Cercando di aprirla scivolò e all’improvviso la portiera cedette disseminando pezzi di ghiaccio dappertutto.

Nell’abitacolo il miasma era più intenso, un fetore di decomposizione e morte da sentirsi male.

Allungò una mano sotto il cruscotto, trovò il gancio di plastica nera che comandava l’apertura del baule e tirò con forza.

Sentì un piccolo tonfo alle spalle, quando il bagagliaio scattò.

Scivolando fece il giro della macchina appoggiandosi per non cadere.

È nel baule, pensò di nuovo.

Il bagagliaio era socchiuso. Si chinò per aprirlo completamente.

L’odore era cattivo, ma avrebbe potuto essere molto più intenso: il fondo del baule era coperto da un paio di centimetri di ghiaccio mezzo sciolto. C’era una ragazza, dentro. Indossava una tuta da neve rossa, tutta macchiata, adesso, e i capelli diritti erano lunghi. Siccome aveva la bocca chiusa Shadow non poteva vedere l’apparecchio con gli elastici azzurri, però sapeva che c’era. Il freddo l’aveva conservata come in un freezer.

Gli occhi erano spalancati, la morte l’aveva colta mentre piangeva: le lacrime che le si erano congelate sulle guance non si erano ancora sciolte.

«Sei sempre stata qui» disse Shadow al cadavere di Alison McGovern. «Tutti quelli che sono passati sul ponte ti hanno vista. Tutti quelli che sono entrati in città ti hanno vista. I pescatori ti sono passati vicino tutti i giorni e nessuno sapeva.»

Allora si rese conto di quant’era stupida, la sua ultima affermazione.

Qualcuno doveva pur sapere. Qualcuno l’aveva pur messa lì dentro.

Allungò le braccia per vedere se riusciva a tirarla fuori. Appoggiò tutto il peso alla macchina e, forse, fu quello a provocare il disastro.

Il ghiaccio sotto le ruote anteriori cedette di colpo in quel preciso momento, forse a causa dei suoi movimenti, o forse no. La macchina affondò il muso nel lago buio e imbarcò acqua dalla portiera aperta. Shadow sentì l’acqua che gli bagnava le caviglie, anche se il punto dove si trovava lui sembrava ancora solido. Si guardò intorno affannosamente, chiedendosi come fare a cavarsi dai guai. Troppo tardi, anche lì il ghiaccio cedette di botto scagliandolo contro la macchina e la ragazza morta dentro il bagagliaio, e il posteriore andò giù, e Shadow con lei, nelle acque fredde. Erano le nove e dieci del mattino del ventitré marzo.

Prima di andare sotto riuscì a prendere un profondo respiro e a chiudere gli occhi, ma il freddo dell’acqua lo colpì come un muro, mozzandogli il fiato.

Rotolò nell’acqua scura trascinato dalla macchina.

Era sotto il lago, nelle sue gelide tenebre, appesantito dagli indumenti, dai guanti e dagli stivali, fasciato e intrappolato nel piumino che assorbiva l’acqua e diventava pesante.

Stava ancora cadendo. Cercò di allontanarsi dalla macchina ma era impossibile, poi un tonfo gli riecheggiò in tutto il corpo, non nelle orecchie, e si rese conto che il piede sinistro era piegato, intrappolato sotto la macchina che si stava appoggiando sul fondale, e venne assalito dal panico.

Aprì gli occhi.

Sapeva che laggiù era buio: razionalmente sapeva che era troppo buio per vedere, invece vedeva ogni particolare. Il volto pallido di Alison McGovern che lo fissava dal baule aperto. Le altre macchine, le bagnarole degli anni passati, sagome di carcasse arrugginite nell’oscurità, erano semisepolte nel fango. E chissà quali altri mezzi di trasporto avevano messo in mezzo al lago, si chiese, prima dell’avvento delle automobili.

Ogni vettura, lo sapeva con certezza, conteneva un bambino morto. Erano decine… e ognuna era stata parcheggiata sul ghiaccio sotto gli occhi di tutti per l’intero inverno, per poi sprofondare nelle acque fredde con l’arrivo della bella stagione.

Era lì che riposavano Lemmi Hautala e Jessie Lovat e Sandy Olsen, Jo Ming e Sara Lindquist e gli altri bambini. Laggiù dove regnavano gelo e silenzio…

Tirò per liberare il piede. Era impigliato. La pressione nei polmoni stava diventando insopportabile. Sentiva un dolore lancinante nelle orecchie. Espirò lentamente e l’acqua formò una piccola scia di bollicine intorno alla sua faccia.

Tra poco, pensò, tra poco dovrò respirare. Oppure soffocherò.

Appoggiò le mani al paraurti e spinse con tutte le sue forze. Niente.

È soltanto l’involucro di una macchina, si disse. Hanno tolto il motore che è la parte più pesante. Ce la puoi fare. Continua a spingere.

Spinse.

Lentamente, un tormentoso centimetro dopo l’altro, la bagnarola scivolò sul fango e lui riuscì a liberare il piede. Scalciò cercando di risalire in superficie. Non si mosse. La giacca, si disse. Il piumino. È bloccato, è impigliato da qualche parte. Lo sfilò dalle braccia, armeggiò con le dita intorpidite intorno alla cerniera ghiacciata, poi l’aprì con uno strappo, sentì la stoffa cedere e freneticamente si liberò dal suo abbraccio spingendo verso l’alto, lontano.

Ebbe la sensazione di salire, ma non capiva più dov’era il sopra e dov’era il sotto e stava soffocando, il dolore nel petto e nella testa erano troppo forti, doveva inspirare, era certo che avrebbe inghiottito acqua fredda e sarebbe morto. Poi con la testa colpì qualcosa di solido.

Ghiaccio. Aveva cozzato contro lo strato di ghiaccio sul lago. Lo colpì con i pugni ma non aveva più forza nelle braccia, non trovava appigli, niente contro cui spingere. Il mondo si era dissolto nella fredda tenebra sotto il lago. Restava soltanto il freddo.

È ridicolo, pensò. E allora gli tornò in mente un vecchio film con Tony Curtis che aveva visto da bambino, dovrei girarmi sulla schiena e spingere il ghiaccio verso l’alto schiacciando la faccia contro per trovare un po’ d’aria, così potrei respirare, ci deve essere dell’aria nell’intercapedine, invece stava solo galleggiando, stava morendo congelato e non avrebbe potuto muovere un muscolo nemmeno se ne fosse andato della sua vita, e in effetti c’era proprio quella in gioco.

Il freddo divenne insopportabile, il gelo si trasformò in calore. Sto morendo, pensò. Questa volta provò una rabbia, un furore profondo, e afferrando quel dolore e quella rabbia si dimenò, costringendo all’azione muscoli che non avrebbero voluto muoversi mai più.

Allungò una mano, sentì che raschiava il bordo del ghiaccio e veniva a contatto con l’aria. Annaspò in cerca di un appiglio e sentì che un’altra mano stringeva la sua e tirava verso l’alto.

Picchiò con la testa contro lo strato di ghiaccio, con la faccia ne raschiò la parte inferiore, riemerse all’aria passando da un buco, non potendo far altro che inghiottire aria, mentre l’acqua nera del lago gli colava dal naso e dalla bocca. Batté le palpebre, non riusciva a vedere nient’altro che la luce abbagliante e una sagoma indistinta, qualcuno che lo tirava forte costringendolo a uscire e diceva qualcosa a proposito del fatto che sarebbe congelato: perciò coraggio, amico, forza, e Shadow riemerse scrollandosi come una foca, tremando, tossendo.