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Impressionante, pensò Anna.

Lui toccò di nuovo la scacchiera. Ed ecco che si materializzarono i pezzi, sebbene pezzi non fosse la parola giusta. Erano ologrammi, fatti di luce, non di sostanza.

Due file di guerrieri cinesi. Dietro, c’erano elefanti e consiglieri, generali a cavallo e un paio di splendidi imperatori accanto alle loro esili ed eleganti mogli. Uno degli imperatori era vestito di rosso, l’altro di bianco e d’argento.

— Sa giocare? — domandò Gislason.

— Conosco le mosse.

— Non basta. — Gislason toccò la scacchiera. Uno dei guerrieri sfoderò una spada. La minuscola lama scintillò. La figurina la brandì sopra la testa e fece un passo avanti.

Come resistere? Anna osservò il gioco. I guerrieri brandivano spade e stendardi. Gli elefanti si muovevano pesantemente. I cavalli dei generali si impennavano. I consiglieri scivolavano come su rulli. Gli imperatori compivano passi maestosi e le pericolose regine venivano avanti con un curioso oscillare di passettini.

Molto impressionante, sebbene chiaramente un ologramma. I colori erano troppo pallidi. I rossi e i bianchi avevano una certa iridescenza perlacea, e le figure mancavano di solidità, sebbene fossero tridimensionali e magnificamente dettagliate. Di tanto in tanto, vibravano o svanivano per brevi momenti.

Una coppia di eserciti fantasmi, pensò Anna. Che lottavano per cosa?

— Costa molto? — domandò.

— La scacchiera? Sì. Ma nello spazio non c’è modo di spendere molto denaro. Mi piacciono gli scacchi e i giocattoli costosi.

Gislason andò avanti fino a quando l’aereo non cominciò a scendere. Poi spense la scacchiera. Le minuscole figure spettrali svanirono. Riavvolse la scacchiera e la mise via mentre l’aereo planava… sull’acqua, decise Anna. Rallentò, girò e finalmente si fermò. La porta davanti a loro, quella che conduceva alla macchinetta del caffè, si aprì. Il soldato con le sopracciglia azzurre riapparve.

— Dobbiamo muoverci alla svelta, tenente. La nuvola che ci fornisce la copertura comincia a rompersi.

Gislason annuì e si alzò. — Signora?

Anna seguì i due verso lo sportello esterno. Sopracciglia azzurre lo aprì e saltò nell’oscurità. Anna udì un tonfo nell’acqua.

— Profondità un metro — disse sopracciglia azzurre. — E fredda.

— Signora — fece Gislason.

Anna saltò e colpì prima l’acqua, poi il fondo. Sabbia cedette sotto i piedi e sarebbe caduta se il soldato non l’avesse sostenuta.

— Tutto bene, signora?

— Sì.

Guadarono fino alla spiaggia, Gislason in coda. Quando fu sul terreno asciutto, Anna si guardò indietro. Un altro soldato era fermo nel vano dello sportello aperto dell’aereo, una donna, questa volta. Chiuse lo sportello e la luce scomparve. Un momento dopo, un’altra luce apparve in mano al soldato dalle sopracciglia azzurre. La diresse davanti a loro, su una spiaggia rocciosa.

— Andiamo.

Di nuovo, come in un sogno, Anna seguì l’indicazione. Il raggio della torcia rischiarò dapprima un terreno sassoso, poi uno ricoperto di similmuschio. Si inerpicarono per un pendio. C’erano oggetti attorno a loro, alti come persone ma immobili e silenziosi. Cos’erano?, pensò Anna. Il soldato sollevò la torcia e ne indirizzò il raggio verso un albero. Una folta lanuggine ne copriva il tronco e i rami. Non c’erano foglie.

— Dove siamo? — domandò Anna. — Sulla parte meridionale del continente?

— Temo di non poterglielo dire — rispose Gislason.

Fosse stato giorno, Anna avrebbe potuto cercare i grandi animali con la corazza e le zampe. Ma quelli erano animali diurni e, come i loro predatori, amavano il calore del sole.

Il raggio della torcia mostrò una sporgenza rocciosa davanti a loro, bassa e di pietra scura, con un’apertura per la quale entrarono: una caverna bassa. Sul fondo, c’era una porta. Anna non l’avrebbe notata neppure di giorno tanto era ben occultata.

Il soldato spinse e la porta si spalancò. Oltre, c’era un corridoio di cemento con tubi per l’illuminazione lungo il soffitto. La luce che quei tubi emanavano era pallida e aveva una venatura d’azzurro.

— Benvenuta a Campo Libertà — disse il soldato.

14

Entrarono, prima Anna, poi Gislason, infine il soldato il quale chiuse la porta dietro di sé. Dall’altra parte, era di metallo e aveva una ruota. Il soldato la girò come se stesse chiudendo una delle antiche casseforti di banca.

Gislason disse: — Vada avanti lungo il corridoio.

I loro passi echeggiavano debolmente. Per il resto, Anna non udiva altro che il ronzio di un sistema di condizionamento. Dopo un centinaio di metri, arrivarono a un’altra porta. Il soldato l’aprì. Dall’altra parte, c’erano molta luce e della musica. Anna riconobbe la canzone. Era stato un motivo in voga quando era venuta la prima volta ai confini della Confederazione: Vivere ai confini della Confederazione. Non ricordava più il nome del gruppo. Erano apparsi e svaniti come una cometa. Ma quella canzone era stupenda: la descrizione migliore di ciò che aveva sentito che fosse vivere "Dove nessuno è stato prima di me/e tutte le regole sono nuove" e "il messaggio di casa diventa rumore".

In quel momento, però, la musica era troppo forte e le parole non erano comprensibili. Un sistema sonoro di second’ordine.

— Che cosa succede? — domandò Gislason.

Il soldato con le sopracciglia azzurre si strinse nelle spalle.

Quel nuovo ambiente era contraddistinto da molte porte. Ne superarono diverse, tutte chiuse, poi arrivarono a una già aperta. Gislason la prese per il gomito e la guidò dentro.

Un ufficio ordinario, con una donna dall’aspetto ordinario seduta a una scrivania. Non aveva neppure la capigliatura alla moicana: i suoi capelli… folti e ricci e neri… le andavano da tutte le parti sulla testa. Indossava una specie di uniforme anche se non militare: una casacca azzurro marina e una camicetta d’argento con il collo alto. La cravatta era scura e stretta e appuntata con una spilla a forma di delfino.

Gislason chiuse la porta. La musica divenne a malapena udibile. — Perché tutto questo rumore?

— Abbiamo qualche problema con l’insonorizzazione — disse la donna. — Tra le stanze e il corridoio. E altrove. Non si riesce a sentire da una stanza all’altra e all’esterno il suono non filtra. Di questo sono sicura. Ma, tutto sommato, direi che quella della musica è una buona idea. — Tacque per un momento. — E aiuta il morale. Ci ricorda che stiamo combattendo per la civiltà umana. Lei dev’essere la signora Perez.

— Sì. Vorrei sapere esattamente in che cosa sono stata cacciata. Dove sono? Che cos’è questo posto? E che cosa ne sarà della mia barca? Il nemico… i hwarhath, voglio dire… non la individuerà? Che cosa penseranno quando scopriranno che è vuota?

— Non risponderò a tutte le sue domande — disse la donna. — Le dirò della barca. In questo momento… — Si guardò il polso. — …dovrebbe essere affondata.

— Che cosa?

— Tutto ciò che il nemico troverà sarà un relitto e troppo in profondità per essere riportato facilmente a galla. E anche se ci riuscissero, che cosa scoprirebbero? — La donna guardò Gislason.

— Che nella cambusa è scoppiato un incendio — disse lui. — Impianto elettrico difettoso della caffettiera. Il fuoco ha raggiunto i serbatoi del carburante e… bum.

— Figlio di puttana — sbottò Anna.

— Lei non ha alcun motivo per credere che la madre del tenente Gislason sia in qualche modo responsabile dell’attuale comportamento del figlio — disse la donna. — Il nemico non troverà cadaveri, naturalmente. Questo succede, nell’oceano. La corrente li porta via. E chi sa dove finiscono… È però sempre possibile che saltino fuori prima o poi.

— Che cosa? — fece Anna.

— Un corpo — disse la donna in tono rassicurante. — Non il suo, naturalmente. Quello di Sanders. Preferiremmo tenerlo vivo. È sempre possibile ottenere da lui il massimo delle informazioni in una settimana o due o tre. Dopo di che, potremmo disporne a piacimento, se fosse necessario.