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Lei mi porse la scodella di poltiglia, poi fece il gesto dell’assenso.

Io feci il gesto della gratitudine e assaggiai la poltiglia. Aveva una consistenza granulosa e un gusto dolce, quasi di noce. Non male.

— C’è della birra da bere — disse Tanajin. — Mangeremo e poi alimenterò il fuoco.

Nia svegliò l’oracolo. Derek tornò. Gli spiegai il nostro piano fra un boccone e l’altro di poltiglia.

Lui fece il gesto dell’approvazione, poi guardò Tanajin. — Il fiume è abbastanza sicuro? Ho bisogno di fare un bagno.

— La corrente è forte qui. Le lucertole non amano particolarmente l’acqua che corre veloce. È improbabile che caccino in questa zona. Puoi entrare nel fiume, ma rimani vicino alla riva e tieni gli occhi ben aperti. Quegli animali non sempre fanno quello che ci si aspetterebbe.

— Okay — disse Derek.

Tanajin aggrottò la fronte.

— D’accordo — ripeté Derek nel linguaggio dei doni.

— Vengo con te — dissi e mi alzai in piedi.

— Vi occorre un qualcosa — disse Tanajin.

— Che cosa? — domandò Derek.

— Vi faccio vedere. — Tanajin si alzò ed entrò nella tenda. Uscì con un oggetto delle dimensioni di una palla da baseball. — Questo.

Presi l’oggetto. Era giallo e sembrava oleoso. — Non abbiamo niente del genere — dissi.

— Non c’è da stupirsi se siete sporchi e puzzate.

Derek disse: — Non abbiamo niente del genere con noi. Ce l’abbiamo a casa. E lo usiamo.

— Bene, usatelo adesso — ribatté Tanajin.

Ci dirigemmo verso monte lungo il fiume finché non arrivammo in un punto che non si vedeva dalla tenda, ci spogliammo ed entrammo con i piedi nel fiume. L’acqua era tiepida, più o meno della stessa temperatura della birra locale di Tanajin. Anche vicino a riva riuscivo a sentire la corrente. Mi abbassai finché l’acqua non mi coprì, poi mi alzai e mi fregai con quella specie di palla gialla. Faceva la schiuma. Meraviglioso!

Derek allungò la mano. — Anche a me.

— Solo un minuto. — Mi coprii di schiuma e mi fregai con la schiuma anche i capelli. Derek restò a guardare, nell’acqua fino alla vita, le mani sui fianchi. — L’impazienza su un monumento — dissi.

— Che cosa?

— È una citazione, ma non me la ricordo esattamente.

— Shakespeare. La Dodicesima Notte. "Sedeva come la Pazienza su un monumento, sorridendo al dolore." Non ricordo l’atto o la scena, ma è Viola che parla al duca. Di sé, naturalmente, sebbene il duca non lo sappia. Dammi il sapone.

Glielo porsi. Lui s’insaponò. Mi risciacquai. C’era qualcosa di uguale al pulirsi? Soprattutto dopo aver viaggiato a lungo. Mi feci ridare il sapone e mi ricoprii di schiuma una seconda volta.

Derek disse: — Credo che dovremmo servirci di questa roba per lavare i nostri indumenti. Sono arrivato al punto di non voler più stare controvento a me stesso.

Passò un tronco galleggiante. Sopra c’era una lucertola. Una piccola, non più lunga di un metro. Girò la testa e ci osservò, poi gonfiò la sacca nella gola. Ca-roak!

— Altrettanto a te — dissi.

Tornammo a riva, lavammo i nostri vestiti e li stendemmo sulla sabbia ad asciugare. L’aria era quasi immobile. La giornata si stava facendo molto calda. Ci sedemmo fianco a fianco. Lanciai un’occhiata a Derek. I suoi capelli erano di nuovo biondi. La sua pelle era tornata del suo consueto colore: bruna e bruna rossiccia. Era attraente.

— Gli antichi santi avevano ragione — disse. — Quelli che non si facevano il bagno. Essere sporchi ostacola il sesso. Non sono sicuro di quale sia il nesso esatto, e non funziona per tutti, naturalmente. Ma di certo funziona per me. — Fece il gesto della domanda.

Risposi con il gesto dell’approvazione e quello dell’assenso.

Facemmo l’amore sulla sabbia, poi entrammo nuovamente nel fiume e ci lavammo. Ci sedemmo di nuovo. Lui si protese verso di me e mi baciò l’orecchio. — Aristotele non aveva ragione. "Tutti gli animali sono tristi dopo il sesso." Io tendo a sentirmi dolce e sentimentale dopo essermi calmato. — Sorrise. — E compiacente, come se avessi realizzato qualcosa fuori dall’ordinario. Un gioco di prestigio con le carte migliore della media o un saggio davvero intelligente.

— Non sapevo che facessi giochi di prestigio con le carte.

— Non al momento. Ho lasciato lassù le carte.

Guardai verso valle. Una colonna di fumo denso si levava nel cielo. Il fuoco di segnalazione.

— Ma posso dimostrare di essere abile — disse Derek.

— Oh, davvero?

— C’era qualcuno nella tenda quando siamo arrivati ieri sera. Si nascondeva. Credo che fosse un uomo.

— Come fai a saperlo?

— Impronte di passi. Grandi. Che entravano e uscivano. Quelle vicine alla tenda erano confuse, ma ne ho trovate altre più lontano. Impronte ben distinte. Una serie era fresca. Quelle che si allontanavano. Scommetto che se ne è andato dopo che ci siamo messi a dormire. — Derek fece una pausa. — Non dall’ingresso principale. Mi avrebbe svegliato. Ha separato due pelli sul retro.

Riflettei un momento. — Pensi che si tratti dell’uomo al quale sta facendo segnalazioni?

— Assai probabile. Non voleva che sapessimo che era amica di un uomo. Sebbene io sia un uomo, e anche l’oracolo. Queste persone sono guardinghe.

Controllai i vestiti. Erano ancora umidi. — Mi sono resa conto solo stamattina che c’è una possibilità che il nostro viaggio sia quasi finito. Ancora un giorno o due e non vedremo più Nia né l’oracolo.

Derek fece il gesto dell’approvazione.

— Non mi è rincresciuto lasciare quel villaggio del New Jersey. Quelle persone erano odiose. Ne sono uscita viva a stento. Ma tutte le altre volte in cui ho terminato uno studio, è stato doloroso. Almeno un po’. Entrare e uscire dalla vita di altri individui.

— Di solito io sono pronto ad andarmene — disse Derek. — Incomincio a pensare alla mia casa di Berkeley. Ai miei libri. L’impianto idraulico interno. La cucina con tutto quello che mi serve per cucinare. E tutte le donne avvenenti che si trovato in giro per l’università. — Esitò. — In seguito, quando sono tornato, sento la mancanza delle persone che stavo studiando. — Sorrise. — Fra le comodità della mia casa.

Controllai di nuovo i vestiti. Parlammo delle persone che avevamo studiato e delle persone che avevamo conosciuto come amici e colleghi sulla Terra. Una conversazione divagante, piena di pause. Facemmo l’amore una seconda volta e ci lavammo di nuovo nel tiepido fiume. La giornata diventava sempre più calda. A ovest comparvero delle nuvole.

Intorno a mezzogiorno Nia venne a cercarci. — L’uomo è arrivato. Deve vivere qui vicino. È disposto ad accompagnarci fino al lago, ma vuole partire subito. Dice che ci sarà un temporale nel pomeriggio. Prima di allora vuole aver disceso un bel tratto di fiume.

Ci infilammo la biancheria e scuotemmo via la sabbia dagli altri indumenti, li arrotolammo e li riportamo al nostro bivacco.

C’era una canoa tirata in secca sulla riva. Ricavata da un tronco scavato e piuttosto grossa. Era sorprendente che un uomo solo avesse bisogno di un’imbarcazione così grande. La prua era alta e la parte superiore era costituita da una testa di animale scolpita in modo elaborato. Gli occhi erano intarsiati di conchiglie. La bocca era aperta e aveva denti veri: triangolari e bianchi. Erano tutti delle stesse dimensioni. Generici. Con ogni probabilità i denti di un pesce o di un rettile o di un uccello molto grosso. Il proprietario della canoa non si vedeva da nessuna parte.

— È dentro la tenda — disse l’oracolo. — Sta parlando con Tanajin. Sono una strana coppia.

— Faremmo meglio a infilarci le camicie — disse Derek. — La giornata è radiosa. Ci scotteremo sull’acqua.

— Okay.

Infilammo negli zaini i jeans e il resto delle nostre cose.

Nia disse: — Ho parlato con Tanajin questa mattina e le ho spiegato che sono una lavoratrice del ferro. Lei ha qui degli utensili, lasciatile da una viaggiatrice. Dice che c’è un buco sul fondo della sua migliore pentola per cucinare, e Ulzai, l’uomo, ha un coltello che non ha più filo. E c’è altro lavoro da fare.