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Vorneen sapeva che lei aveva ragione. Ciò che contava adesso era evitare l’esplosione, e non preoccuparsi di esporsi ad un qualunque sistema di rilevazione terrestre, dallo schermo neutronico al semplice occhio dell’osservatore. Spalancò il portello e si infilò dimenandosi nel vano motore.

La nave Dirnana era stata progettata per un viaggio indefinito senza far rifornimento di carburante. Il suo scafo, una sfera appiattita, si assottigliava verso il basso in una cupola nella quale era montato un generatore a fusione: nulla di più o di meno di un sole in miniatura, dal quale la nave traeva tutta l’energia di cui aveva bisogno. Nel nucleo del sistema c’era un plasma — un liquido denso ed ardente di elettroni e di nuclei atomici messi a nudo — tenuto sotto controllo da un potente campo magnetico. Nulla di solito poteva contenere quel plasma senza divenire esso stesso parte del plasma; dove si poteva trovare infatti, nell’universo, qualcosa che servisse da contenitore per un gas il cui calore si misurava in centinaia di milioni di gradi? Ma il campo magnetico creava un effetto tenaglia che controllava il plasma, e lo teneva lontano da tutto ciò che avrebbe potuto divorare. Finché il plasma ardente rimaneva sotto controllo, i Dirnani potevano ricavarne energia in eterno, o quanto meno per un periodo di tempo così vicino all’eternità da non fare alcuna differenza per un essere vivente. Ma se lo scudo cedeva, loro tre si sarebbero trovati a vivere a tre o quattro metri di distanza da un sole appena sbocciato. Per un tempo brevissimo.

Entrato nel vano motore, Vorneen si avvicinò al nucleo energetico e vide, sgomento, che cinque delle sbarre di controllo si erano già fuse, e che dei minacciosi archi bluastri guizzavano avanti e indietro sopra l’alloggio del generatore. Non aveva una particolare paura di morire, e fra tutti i tipi di morte quella sarebbe stata certamente la più rapida, ma il senso professionale insito nella sua natura lo spingeva a cercare di risolvere la situazione, almeno entro i limiti in cui era possibile. Tutto quello che poteva fare, si rese conto, era provare a trasferire energia da qualche altra parte della nave per puntellare lo scudo magnetico, e sperare che il sistema si sarebbe stabilizzato da solo mediante i controlli omeostatici, che in teoria dovevano entrare in funzione automaticamente quando si verificavano eventualità del genere.

Il circuito opacizzante era già stato disinserito, rendendo la nave visibile agli occhi dei terrestri. Era spiacevole, ma era già successo in precedenza, fin troppo spesso perché Vorneen potesse preoccuparsene proprio adesso. Quella sera ci sarebbe stata una nuova storia di dischi volanti, nelle trasmissioni TV della Terra, pensò. Ma se il generatore a fusione fosse saltato per aria, magari coinvolgendo un paio di città, ci sarebbe stata una storia assai più grossa di quanto avesse voglia di creare.

— Stacca i circuiti della trasmissione — gridò.

— Già staccati — rispose Mirtin. — Venti secondi fa’. Non te ne sei accorto?

— Non c’è alcun effetto visibile.

— Spegnerò le luci — disse Glair.

— Meglio spegnere tutto — gridò Vorneen. — Non sto facendo alcun progresso. E lo scudo sta cedendo sempre più!

La nave sprofondò nel buio. I poveri terrestri sarebbero stati privati delle guizzanti luci rosse e verdi che amavano tanto; in effetti, adesso non avrebbero più potuto scorgere il disco volante, se non tramite l’attrezzatura di rilevazione del governo. Vorneen si rese conto amaramente che stava scrivendo un nuovo capitolo del vasto archivio di informazioni segrete sulle navi osservatrici in possesso, come era ben noto, dei governi terrestri. Detestava il pensiero di essersi aggiunto al gran numero di pasticcioni che si erano fatti scoprire. Ma non era colpa sua. Ciò che stava succedendo in quel momento era un semplice fenomeno statistico: date un certo numero di navi osservatrici in orbita attorno alla Terra, almeno una era destinata a subire un guasto dalle conseguenze spettacolari. E si dava il caso che fosse proprio la sua.

Ma ora, naturalmente, un segnale di pericolo era partito saettando attraverso la galassia. Nel momento in cui un equipaggio metteva fuori uso i circuiti della sua trasmittente, perdendo contatto con il pianeta madre, un S.O.S. veniva registrato automaticamente. A causa dell’intervallo di anni-luce tra la Terra e Dirna, sarebbero trascorsi una ventina d’anni prima che in patria qualcuno venisse a sapere che quella particolare nave si trovava nei guai, ma quello stesso segnale di pericolo stava raggiungendo centinaia di altri vascelli Dirnani assai più vicini. E questo era di un certo conforto.

Vorneen ritornò al centro della nave. — È inutile — disse. — Sta per esplodere. Dobbiamo abbandonare la nave.

Glair sembrava fuori di sé per la preoccupazione. — Ma…

Mirtin era ai comandi. — Porterò la nave più in alto. Bisogna essere al di sopra del limite di pericolo. Quarantacinque chilometri di quota, va bene?

— Ancora più su — disse Vorneen. — Più in alto che puoi. E mantienila in rotta. Comunque dovremmo trovarci sopra una zona deserta.

— Possiamo portare niente? — domandò Glair.

— Noi stessi — rispose Vorneen.

La nave era stata la loro casa per molti anni, ed era doloroso lasciarla adesso; più doloroso per lei, forse, che per noi, si disse Vorneen. Era Glair che curava il piccolo giardino di fiori Dirnani che avevano a bordo, era Glair che aggiungeva i piccoli tocchi femminili all’austero decoro della nave. Adesso dovevano abbandonare giardino e nave al loro destino, e lanciarsi nel grembo oscuro della Terra. Era una possibilità che ogni osservatore doveva prendere in considerazione, ma a Vorneen non era mai parsa reale, e si rendeva conto di quale sconvolgimento dovesse significare per Glair. Il solo Mirtin sembrava del tutto indifferente a quella sventura.

Si librarono alti nel cielo notturno.

Dal vano motore provenivano ora degli strani brontolii sordi. Vorneen cercò di non pensare a quello che poteva succedere là dentro, o a quanto potessero essere vicini all’esplosione vera e propria. Glair stava indossando l’equipaggiamento per il balzo. Lui afferrò il suo. Mirtin, dopo aver bloccato i comandi, iniziò anch’egli ad indossare la sua tuta.

— Ci separeremo l’uno dall’altro — disse Vorneen. — Forse atterreremo a centinaia di chilometri di distanza. — Vide gli occhi spaventati di Glair, ma proseguì, spietato: — Può darsi che ci feriamo nell’atterraggio, o magari che restiamo uccisi. Ma dobbiamo saltare. In qualche modo riusciremo a ritrovarci. — Diede uno strattone alla leva di espulsione, ed il portello che non si sarebbero mai aspettati di dover usare si spalancò. L’atmosfera sfuggì dalla cabina della nave, ma l’equipaggiamento per il balzo li protesse dalla mancanza d’aria. In fretta si mossero verso il portello.

— Fuori — ordinò Vorneen a Glair.

Lei balzò. Vorneen la seguì inorridito con lo sguardo mentre saettava via dalla nave, descrivendo un arco verso il nulla con tale violenza da fargli temere che lei avesse perso conoscenza. Non era stata addestrata a balzare così goffamente. Ma era trascorso molto tempo dalla loro ultima esercitazione al balzo, a bordo della nave. Stravolto, Vorneen si rese conto che Glair poteva correre incontro alla morte, e l’idea di perdere uno dei suoi compagni gli causò un’angoscia che non aveva mai provato. Abbandonare la nave non era poi granché, in fondo; ma perdere Glair…

— Fuori — disse Mirtin alle sue spalle.

E allora Vorneen lasciò la nave. Malgrado il suo tormento, eseguì il balzo alla perfezione. Quello era il momento in cui gli incubi diventavano concreti; ogni osservatore sognava centinaia di volte di fare il balzo, ma in genere rimaneva un semplice sogno. E invece eccolo lì, che precipitava verso il basso, con un vuoto di quarantacinque chilometri sotto di lui, e Glair probabilmente già morta, ed un pianeta di stranieri ostili che lo attendeva. Eppure, con una strana calma, inserì il suo sistema per il sostentamento vitale, ed avvertì l’impatto improvviso quando lo schermo frenante spiegato equilibrò la sua caduta. Sarebbe sopravvissuto.