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Perfino il nome… Vorneen. Che razza di nome era mai? Glielo aveva rivelato volontariamente, con una certa timidezza, il secondo giorno, e lei aveva aggrottato la fronte e glielo aveva fatto ripetere sillaba per sillaba; Vorneen si era un pochino inceppato nella pronuncia, come se non fosse abituato a considerare quel nome come composto da un alfabeto, ma solo come semplice suono. Vorneen. Era il suo nome di battesimo, o il suo cognome, o il suo unico nome? Kathryn non lo sapeva. Era piuttosto riluttante a rivolgergli troppe domande. Vorneen le diceva ciò che riteneva più opportuno, e lei gliene era riconoscente.

Lo studiò mentre dormiva.

Sembrava così tranquillo. Non aveva mai lasciato il letto da quando Kathryn ve lo aveva deposto la prima notte. Lei dormiva sul sofà, sistemata alla bell’e meglio, benché Vorneen le avesse proposto in modo piuttosto schietto di dividere il letto con lui. — È abbastanza grande per due, no? — le aveva chiesto. Sì, lo era. Kathryn si era domandata se facesse volutamente l’ingenuo, sapendo in realtà benissimo che cosa significava per un uomo ed una donna dividere lo stesso letto, o se invece, non essendo mai stato un uomo, non gli fosse mai venuto in mente che la cosa poteva avere qualche significato. Forse non pensava affatto in termini di sesso.

Aveva voltato la faccia, arrossendo come una verginella, quando Vorneen le aveva proposto di dormire insieme, è quella sua reazione l’aveva lasciata perplessa. Era un anno che era vedova, ormai, e non doveva più nulla alla memoria di Ted. Poteva dormire dovunque desiderasse, proprio come aveva fatto a diciannove anni, quando era ancora nubile. Eppure era diventata all’improvviso stranamente pudica. Durante i mesi di lutto le era sembrata oscena perfino l’idea di mettersi con un uomo; si era isolata dal mondo quasi del tutto, costruendo un piccolo nido caldo per lei e per Jill in quella casa, e recandosi raramente al di là del centro commerciale locale, ma fin dall’estate aveva cominciato a dirsi che era ora di emergere da quell’isolamento e di trovare un nuovo padre per Jill. Be’, quell’uomo che era piovuto dai cieli era ben lungi dal sembrare il candidato ideale per quel tipo di responsabilità, ma anche così non c’era alcun motivo per cui lei non dovesse avvicinarsi a lui, o addirittura farci l’amore, se quello era il desiderio di Vorneen, e se la sua gamba spezzata gli consentiva simili attività fisiche. Comunque, la gamba sembrava guarire con straordinaria rapidità; lei l’aveva bendata, e il gonfiore era sparito, ed inoltre lui non dava più segno che gli facesse male.

Perché, allora, Kathryn continuava a sfuggire quel letto con tanto verginale pudore?

Pensava di averlo capito. Non era per timore di dormire insieme a Vorneen, ma perché aveva paura dell’intensità del suo stesso desiderio. Qualcosa, in quell’uomo magro, pallido, assurdamente bello, esercitava su di lei un irresistibile richiamo fisico. Era stato così fin dal primo momento. Kathryn non credeva nell’amore a prima vista, ma il desiderio a prima vista era tutta un’altra faccenda, e lei era in balia di quel richiamo fisico.

Si ritrasse, terrorizzata dall’intensità di ciò che provava per Vorneen. Se avesse consentito alla barriera che li separava di incrinarsi, anche di poco, avrebbe potuto succedere qualsiasi cosa.

Qualsiasi cosa.

Prima doveva saperne di più su di lui.

Gli sistemò la coperta, poi prese il blocchetto per appunti che si trovava sul comodino. Tornerò fra un paio d’ore, vi scrisse. Vado ad Albuquerque a fare spese. Non si preoccupi. K. Dopo aver appuntato il bigliettino sul cuscino non adoperato del letto matrimoniale, uscì in punta di piedi dalla stanza e si recò nella camera dei giochi di sua figlia. La bambina stava facendo qualcosa di informe e sinistro con la creta per modellare che sua madre le aveva comprato, un affare pieno di protuberanze tentacolari come un polipo. O come un marziano, se pure esistevano i marziani. Kathryn vedeva esseri alieni da tutte le parti.

— Guarda, mamma, è un serpente! — gridò Jill.

— I serpenti non hanno le gambe, tesoro — ribatté Kathryn. — Ma è bellissimo lo stesso. Vieni a mettere il cappotto.

— Dove andiamo?

— Io devo andare in città. Tu andrai a giocare per un po’ dalla signora Webster, d’accordo?

Jill, senza lamentarsi, si fece mettere il cappotto. Come ogni bambina di tre anni, si adattava facilmente a qualsiasi cambiamento di programma e d’ambiente. Ricordava ancora il suo papà morto, ma solo in modo vago; in realtà ricordava più che altro di aver chiamato «papà» qualcuno, e non una persona specifica. Se in quel momento Ted avesse varcato la soglia di casa, forse Jill non lo avrebbe nemmeno riconosciuto. Nella stessa maniera, in breve tempo, anche il ricordo del gattino sperduto era svanito dalla sua memoria. Quanto all’improvviso ed inesplicabile arrivo di Vorneen in casa, Jill non sembrava preoccuparsene troppo. Aveva accettato il fatto come un fenomeno materiale tutt’altro che straordinario, come il sorgere del sole o l’arrivo del postino. Opportunamente, Kathryn si era ben guardata dal dire a sua figlia di non parlare a nessuno di Vorneen, poiché la bambina l’avrebbe fatto di sicuro. Per Jill, Vorneen era un visitatore, qualcuno che stava in famiglia, e dopo il secondo giorno aveva già perduto ogni interesse apparente nei riguardi dell’uomo che giaceva nel letto di sua madre.

Kathryn portò Jill da una vicina che abitava dall’altra parte della strada e con la quale coltivava un vago e superficiale rapporto di amicizia. La vicina aveva quattro figli sotto i dieci anni, ed uno in più non sembrava costituire un problema per lei. — Puoi guardarmi Jill fin verso le cinque? — le chiese Kathryn. — Devo recarmi in città. — Molto semplicemente. Jill la salutò con un solenne cenno della mano.

Cinque minuti più tardi Kathryn era sulla superstrada, diretta verso Albuquerque ad una velocità di centoventi chilometri l’ora. Il motore a batteria elettrica della sua macchina, silenzioso e ben a punto, sembrava pulsare di energia. Oltrepassò veloce Bernalillo e si ritrovò nei sobborghi di Albuquerque. A quell’ora il traffico non era intenso. Il cielo invernale era chiazzato da nuvole grigie, e l’orizzonte era offuscato. Forse sarebbe nevicato. Ma c’erano persone, in città, che le avrebbero potuto raccontare qualcosa dei dischi volanti, e quella era una buona occasione per parlare con loro.

Quando ebbe sistemato la macchina nel grosso parcheggio sotto Rio Grande Boulevard, Kathryn si diresse ad est verso la città vecchia. Sull’elenco del telefono scoprì che l’ufficio del Culto del Contatto aveva sede in un indirizzo di Romero Street. Naturalmente loro non si definivano in quel modo; quello era solo il nome del giornale, e Kathryn sapeva che ai cultisti non piaceva che si pensasse a loro a quel modo. La denominazione ufficiale del gruppo era «Società per la Fratellanza dei Mondi». Kathryn l’aveva trovato nell’elenco sotto «Organizzazioni Religiose».

Una piastra di bronzo brunito, montata sul davanti di un vecchio e malconcio edificio, indicava l’ufficio locale — o chiesa? — della Società per la Fratellanza dei Mondi. Kathryn esitò sull’ingresso, avvampando di un rossore improvviso nel ricordare con quanta acidità Ted le aveva parlato di quell’organizzazione, con i suoi orpelli di misticismo esasperato, le sue riunioni a Stonehenge e Mesa Verde, la sua mescolanza religiosa di antichi rituali e di moderne apparecchiature scientifiche. Ted aveva affermato che metà dei membri del Culto del Contatto erano degli imbroglioni, e l’altra metà dei creduloni, e che Frederic Storm, il capo, era il più grande imbroglione di tutti. Kathryn si scrollò di dosso ogni esitazione. Ormai le opinioni di Ted non contavano più. Non era venuta lì per aderire al culto, ma solo per ottenere delle informazioni.

Entrò.

L’interno elegantemente arredato smentiva la facciata squallida dell’edificio. Kathryn si ritrovò in una piccola anticamera dal soffitto alto, vuota ad eccezione di due sedie di ottima fattura ed una splendente imitazione in bronzo della statua che costituiva il marchio di fabbrica dell’organizzazione: una donna nuda, con gli occhi chiusi, e le braccia allargate in un benvenuto rivolto alle stelle. Kathryn aveva sempre pensato che quell’emblema fosse straordinariamente insulso, ma ora, con un senso di disagio, non ne era più tanto sicura. Su tre lati della stanza sontuose porte di mogano immettevano negli uffici interni.