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Non ancora, però. Decise di aspettare tre giorni, e di vedere che cosa succedeva. A quel punto, la mancanza d’acqua avrebbe cominciato a tormentarlo seriamente, ed allora gli sarebbe rimasta solo la forza per disconnettere il resto del suo sistema nervoso, e scivolare così in una morte tranquilla. Il suo cadavere si sarebbe dissolto presto, anche in quel clima secco, ed un giorno avrebbero scoperto solo la sua tuta vuota. Quei corpi artificiali da terrestre erano stati progettati per putrefarsi rapidamente, ossa e tutto il resto, dopo che la scintilla vitale Dirnana si era spenta; gli organizzatori avevano preso le loro precauzioni per evitare che gli osservati venissero a conoscenza dei loro osservatori.

Mirtin attese.

Giunse il mattino, un lento incedere di chiarore che spuntava dal burrone. Attese con pazienza. Un altro mattino, poi un altro ancora, e tutto sarebbe finito. Rivide la sua vita. Pensò a Glair ed a Vorneen, a quanto profondamente li aveva amati. Si domandò, con la massima tranquillità, se era stato utile donare così la sua vita per quel mondo.

Alla fine si rese conto che qualcuno si stava avvicinando.

Mirtin non se lo aspettava. Era già rassegnato a rimanere sdraiato con la schiena spezzata in mezzo al deserto per i tre giorni da lui scelti volontariamente, lasciando che il tempo passasse, e consumandosi poco a poco. Invece sembrava che sarebbe stato scoperto.

Benché non fosse in grado di sollevare la testa, poteva girare gli occhi. Scorse ad una certa distanza un terrestre ed un piccolo animale domestico che si dirigevano verso di lui, seppure senza intenzioni apparenti. Si muovevano con circospezione, l’animale saltellando e dimenandosi, il terrestre fermandosi ogni tanto per lanciare delle pietre nel burrone. Mirtin discusse tra sé e sé la miglior condotta da seguire. Una morte rapida, subito, prima di essere scoperto? Se esisteva il minimo rischio che potesse essere condotto di fronte alle autorità, era impegnato da un giuramento ad uccidersi. Ma il terrestre sembrava giovane. Poco più che un ragazzo. Mirtin si costrinse a pensare in inglese, a mutare l’intero suo sistema di riferimenti. Che cos’era quell’animale? Aveva dimenticato gran parte di quello che sapeva sui mammiferi locali. Gatto, topo, pipistrello? Cane. Cane. Il cane aveva ormai identificato il suo odore. Una piccola e snella creatura bruna con una lunga coda dal ciuffetto bianco, un naso ruvido, occhi giallastri. Puntava su di lui, annusando. Mirtin poteva scorgere le ossa che sporgevano dal dorso della bestia. Il ragazzo lo seguiva.

Il muso nero era ormai davanti alla sua visiera. Il ragazzo era in piedi sopra di lui, con gli occhi sgranati, e la bocca aperta. Mirtin fece appello alle sue cognizioni. Il ragazzo era nell’età prepuberale; aveva forse dieci o undici anni. Capelli neri, occhi bruno-scuri, carnagione bruno chiaro. Membro di un gruppo negro? No. I capelli erano lisci, le labbra sottili, il naso stretto. Un membro degli aborigeni superstiti di quel continente. Parlerà inglese? Avrà intenzioni malvage? La bocca non era più spalancata. Adesso era chiusa, con gli angoli ripiegati all’insú. Un sorriso. Un segno amichevole. Anche Mirtin cercò di sorridere, e si accorse con sollievo che i suoi muscoli facciali funzionavano.

— Ciao — disse il ragazzo. — Sei ferito?

— Io… sì. Sono ferito molto gravemente.

Il ragazzo si inginocchiò accanto a lui. Occhi neri e scintillanti fissarono i suoi. Il cane, agitando la coda, annusò intorno a Mirtin, punzecchiandolo. Con una rapida manata il ragazzo fece allontanare l’animale. Mirtin provò simpatia per il giovane terrestre.

— Da dove vieni? — domandò il ragazzo con un filo di voce. — Sei caduto da un aeroplano?

Mirtin evitò la domanda imbarazzante. — Ho bisogno di cibo… di acqua…

— Già. Che cosa dovrei fare? Chiamare il capo? Possono far venire un camion, o forse portarti in ospedale ad Albuquerque.

Mirtin si irrigidì. Ospedale? Esame interno? Non poteva correre un rischio del genere. Se avesse lasciato che un medico terrestre gli puntasse sul corpo una delle sue macchine a radiazioni, e si accorgesse di quel che c’era sotto, il gioco era fatto. Sarebbe stato costretto ad uccidersi.

Scegliendo con cura le parole, Mirtin disse: — Potresti portarmi qui del cibo? Qualcosa da bere? Aiutami ad arrivare in quella caverna, vuoi? Solo finché non starò meglio.

Vi fu un lungo silenzio.

Poi — un colpo a caso, un guizzo di intuizione, forse? — il ragazzo strinse la bocca, emise una specie di fischio e disse: — Ehi, ho capito! Sei caduto dal disco volante!

Fu un centro pieno, e Mirtin lo accusò. Non era preparato ad una cosa del genere. Automaticamente disse: — Disco volante? No… no, non un disco volante. Io ero a bordo di una macchina. C’è stato un incidente. Sono stato lanciato fuori.

— E allora dov’è la macchina?

Gli occhi di Mirtin guardarono verso il burrone. — Laggiù, credo. Non lo so. Sono svenuto.

— Non c’è nessuna macchina. E da queste parti non è possibile guidare alcun veicolo. Stammi a sentire, signore, tu sei venuto da quel disco volante. Non prendermi in giro. Da quale pianeta vieni, eh? E come mai assomigli tanto a un terrestre?

Mirtin ebbe voglia di ridere. C’era tanta intelligenza in quel piccolo viso angoloso e schiacciato, una mente così acuta e scettica dietro quegli occhi scintillanti. Il ragazzo gli piaceva moltissimo. Poco più che uno straccione, che non parlava nemmeno troppo bene l’inglese, eppure Mirtin avvertiva un potenziale dentro di lui, una scintilla di qualcosa. Desiderò di poter essere onesto con il ragazzo, e di lasciar crollare il suo complicato castello di bugie.

Mirtin disse: — Puoi procurarmi del cibo? Qualcosa da bere?

— Intendi dire, portartelo qui?

— Sì. Se solo potessi stare dentro quella caverna… finché non mi sentirò di nuovo bene…

— Ma io potrei trovare aiuto giù al villaggio. Ti potremmo portare all’ospedale.

— Non voglio andare in un ospedale. Voglio solo restare qui… da solo.

Silenzio per un attimo.

Poi il ragazzo disse: — Non hai l’aspetto di un avanzo di galera. Non stai scappando. E allora perché non vuoi andare in ospedale? Questa strana tuta… e parli in modo strano; hai un accento buffo. Andiamo, signore. Da quale pianeta vieni? Marte? Saturno? Puoi fidarti di me. Non vado molto d’accordo con la gente del villaggio, di questi tempi. Io aiuto te, tu aiuti me. D’accordo?

Mirtin vide l’opportunità che gli si presentava. Perché non fidarsi di quel ragazzo? In fondo, nessun giuramento gli impediva di rivelare ad un terrestre la sua origine extraterrestre. Quanto a questo, doveva servirsi del suo giudizio. Poteva aver più da guadagnare dicendo la verità a quel ragazzo dal volto sudicio, ed ottenendo in tal modo un aiuto, che mantenendo il suo segreto. Specialmente se l’unica alternativa era quella di morire oppure di andare a finire in un ospedale, e di far scoprire il suo segreto a coloro che con maggiori probabilità l’avrebbero reso di dominio pubblico.

— Posso fidarmi di te? — domandò Mirtin.

— Tu aiuti me, io aiuto te. Certo.

— Va bene. Io mi sono lanciato col paracadute da una nave osservatrice. Un disco. L’hai visto esplodere ieri sera?

— Ci puoi scommettere!

— Be’, ero io. Noi. Io sono atterrato qui. Sono ferito… ho la schiena spezzata. Mi ci vorrà parecchio tempo per guarire. Ma se tu avrai cura di me, e mi porterai cibo ed acqua, e non dirai a nessuno che mi trovo qui, ce la farò. Poi cercherò di aiutarti, qualsiasi cosa tu voglia. Ma non devi raccontare a nessuno di questa faccenda.

— Pensi che qualcuno mi crederebbe, in ogni caso? Il pilota di un disco volante in mezzo al deserto. Non lo dirò a nessuno.

— Bene. Come ti chiami?

— Charley Estancia. Della tribù di San Miguel. Ho due sorelle, Lupe e Rosita, e due fratelli. Ma sono tutti degli scemi. E tu come ti chiami?