Ahas disse che il governo del Voe Deo, che aveva combattuto e perso la guerra contro Yeowe, ora temeva una lotta di liberazione su Werel. «Non credere ai notiziari,» mi consigliò, «soprattutto a quelli della rete sensoriale. Non ci cascare. Sono altrettanto fasulli di quegli altri, ma quando una cosa la vedi e la provi con tutti i sensi, finisci per crederci. E loro lo sanno. Non hanno bisogno di armi, se sono padroni delle nostre menti. I possidenti non hanno cronisti, né macchine da presa su Yeowe,» aggiungeva. «I loro servizi sono interpretati da attori.» Soltanto ad alcuni Alieni dell'Ekumene era stato permesso di sbarcare su Yeowe, e gli Yeowiani stavano discutendo sulla possibilità o meno di mandarli via, tenendosi tutto per sé il mondo che si erano conquistato.

«Ma allora che ne sarà di noi?» dissi, perché avevo cominciato a sognare di andarci, di raggiungere il Mondo Libero, appena l'Hame fosse stato in grado di procurare delle navi e inviarci della gente.

«Alcuni dicono di lasciar entrare le proprietà. Altri sostengono che non ci sono risorse sufficienti per tanta gente, e che si ritroverebbero sopraffatti. Ne stanno discutendo democraticamente. Molto presto sarà il voto delle prime elezioni yeowiane a decidere.» Anche Ahas sognava di andare laggiù. Parlavamo del nostro sogno come due innamorati parlano del loro amore.

Ma non c'erano navi che andassero su Yeowe, per il momento. L'Hame non poteva agire apertamente e alla Comunità era proibito fare da tramite. L'Ekumene aveva offerto il trasporto sulle proprie navi a chiunque volesse andare, ma il governo del Voe Deo gli aveva rifiutato l'uso di qualsiasi spazioporto per quello scopo. Potevano trasportare solo la propria gente. Nessun Wereliano doveva lasciare Werel.

Erano passati solo quarant'anni da quando Werel aveva finalmente autorizzato gli Alieni ad atterrare e a stabilire relazioni diplomatiche. Procedendo nella lettura della storia cominciai a capire qualcosa sulla natura della razza dominante su Werel. La razza di pelle nera che aveva sottomesso tutte le popolazioni del Grande Continente, e alla fine di tutto il mondo, coloro che si definiscono possidenti, erano vissuti nella convinzione che esistesse un solo modo di vivere. Avevano creduto di essere quel che si dev'essere, di fare quel che si deve fare, di conoscere tutte le verità conosciute. Tutte le altre popolazioni di Werel, anche quando li avevano combattuti, li avevano imitati cercando di diventare loro, ed erano diventati loro proprietà. Quando un popolo era arrivato dal cielo con un diverso aspetto, diversi usi, diverso sapere, e non si era lasciato conquistare e schiavizzare, la razza padrona non volle averci niente a che fare. Ci misero quattrocento anni ad ammettere di avere dei pari.

Io ero in mezzo alla folla a una convenzione del Partito Radicale, durante la quale Erod parlò con la sua solita eloquenza. Notai una donna accanto a me tra la folla in ascolto. La sua pelle era di un insolito bruno-aranciato, come la scorza di un ananas, e si intravedeva del bianco agli angoli dei suoi occhi. Pensai che fosse malata, pensai alla peste, a come la pelle del signor Shomeke aveva cambiato colore, ai suoi occhi che avevano mostrato il bianco. Rabbrividii e mi allontanai. Lei mi lanciò un'occhiata accennando un sorriso, poi rivolse di nuovo l'attenzione all'oratore. I suoi capelli erano acconciati in una specie di cespuglio o di aureola, come quelli di Sezi-Tual. Il suo abito era di tessuto delicato e di una foggia strana. Poco a poco mi resi conto di cosa fosse, e di come fosse venuta sin qui da un mondo di inimmaginabile lontananza. La cosa meravigliosa è che, con tutta la stranezza della pelle, degli occhi, dei capelli e del pensiero, era umana, come sono umana io, su questo non avevo dubbi. Lo sentivo. Per un attimo fu una sensazione di profondo sconvolgimento. Poi il turbamento cessò e provai una grande curiosità, quasi un'attrazione, un'inclinazione verso di lei. Desideravo conoscerla, e appropriarmi del suo sapere.

In me l'anima di padrona stava lottando contro l'anima di persona libera.

Una lotta che mi durerà tutta la vita. Keo e Ramayo smisero di andare a scuola dopo aver imparato a leggere, a scrivere e a usare il calcolatore, io invece continuai. Una volta esauriti i corsi tenuti dalla scuola dell'Hame, gli insegnanti mi aiutarono a trovare dei corsi sulla rete. Nonostante che questi corsi fossero sotto il controllo del governo, c'erano degli insegnanti validi, e gruppi di ogni parte del mondo che si confrontavano su letteratura, storia, scienze e arti. Era la storia il mio interesse principale.

Ress, che era un membro dell'Hame, mi portò innanzitutto alla Biblioteca del Voe Deo. Siccome era riservata ai possidenti, non subiva alcuna censura governativa. I liberti, se erano di pelle chiara, venivano allontanati dai bibliotecari con qualche pretesto. Io ero di pelle scura, e avevo imparato in Città ad andare in giro con un'aria di ostentata indifferenza che mi metteva al riparo da insulti e oltraggi. Ress mi aveva raccomandato di fare il mio ingresso come se fossi stata la padrona del posto. Lo feci, e ogni sorta di privilegi mi fu accordata senza farmi domande. Così cominciai a leggere liberamente, a leggere qualsiasi libro m'interessasse in quella grande biblioteca, e avrei voluto leggerli tutti uno per uno. Era la mia felicità, quel poter leggere. Era il fulcro della mia libertà.

Oltre il lavoro nello scatolificio, che era ben pagato, piacevole, in mezzo a piacevoli compagni di lavoro, oltre la mia istruzione e le mie letture, non c'era granché d'altro nella mia vita. Non cercavo niente di più. Ero sola, ma sentivo che la solitudine non era un prezzo troppo alto per quel che volevo.

Con Ress, che all'inizio non mi era piaciuta affatto, eravamo diventate amiche. Andavo con lei alle riunioni dell'Hame, e anche ad altri divertimenti di cui non avrei conosciuto l'esistenza senza la sua guida. «Dài, piccolina,» mi diceva, «si va a sgrezzare il cucciolo di piantagione». E mi portava al teatro makil o in sale da ballo per proprietà con della buona musica. Aveva sempre voglia di ballare. Mi insegnò, ma ballare non mi piaceva molto. Una sera, mentre ballavamo un lento, cominciò a stringermi a sé, e guardandola le scorsi sul viso, trepida e nuda, la maschera della brama sessuale. Mi staccai. «Non voglio più ballare,» dissi.

Tornammo a casa a piedi. Ress salì con me fino alla mia stanza e sulla porta cercò di abbracciarmi e baciarmi. Avevo una tale rabbia da star male. «Non voglio!» gridai.

«Mi dispiace, Rakam,» disse lei, con il tono più dolce che le avessi mai sentito. «So come ti senti. Ma è una cosa che devi superare, devi avere una vita tua. Io non sono un uomo, e ti desidero.»

L'interruppi. «Sono stata usata da una donna prima ancora che dagli uomini. Mi hai forse chiesto se io ti desidero? Non voglio essere usata mai più in vita mia!»

Rabbia e dispetto mi eruppero da dentro come pus velenoso da una piaga infetta. Se avesse cercato di toccarmi le avrei fatto del male. Le sbattei la porta in faccia. Andai fremente alla scrivania, mi sedetti e cominciai a leggere il libro che c'era aperto sopra.

Il giorno dopo eravamo tutte e due confuse e impacciate. Ma Ress era paziente sotto la sua scorza cittadina di sbrigatività e durezza. Non cercò più di fare l'amore con me, ma mi indusse ad aver fiducia in lei e a parlarle come non avrei potuto parlare con nessun altro. Mi ascoltò con attenzione e mi disse cosa pensava. «Hai delle idee sbagliate. Non c'è da stupirsi. Come potresti avercele giuste? Tu credi che il sesso sia qualcosa che si deve subire. Non è così. È qualcosa che decidi tu di fare. Insieme a qualcun altro. Non per quell'altro. Tu non conosci il sesso. Quello che hai conosciuto tu si chiama stupro.»

«Il signor Erod mi diceva le stesse cose tanto tempo fa,» dissi. Ero amareggiata. «Non m'interessa come si chiama. Ne ho avuto anche troppo. Per il resto dei miei giorni. E sono ben lieta di farne a meno.»