Non ammazzarono il possidente. La Casa si riempì di dottori, e la signora Tazeu restava giorno e notte al capezzale del marito. Fu una morte atroce. Non arrivava mai. Il signor Shomeke nella sua agonia lanciava versi terribili, grida, gemiti. Era incredibile che un uomo potesse urlare di dolore per ore e ore, come fece lui. La pelle gli si piagava e gli cadeva, lui impazziva, ma non moriva.

Mentre la signora Tazeu, stremata e silenziosa, diventava l'ombra di se stessa, Erod era sempre più pieno di energia e di fervore. A volte, quando udivamo i gemiti di suo padre, i suoi occhi si illuminavano. Sussurrava, «Tual, nostra Signora, abbi pietà di lui,» ma godeva di quei pianti. Sapevo da Geu e Ahas, che erano stati allevati insieme a lui, che il padre lo aveva sempre vessato e disprezzato, e che Erod aveva giurato di essere tutto il contrario di suo padre e di disfare tutto ciò che lui aveva fatto.

Fu la signora Tazeu a por fine a tutto questo. Una notte licenziò gli altri assistenti, come faceva spesso, e rimase sola con il moribondo. Quando cominciò col suo lamento straziante, prese il coltelletto da cucito e gli tagliò la gola. Poi si tagliuzzò ripetutamente le vene delle braccia, si distese accanto al marito e spirò. Mia madre era rimasta nella stanza accanto tutta la notte. Disse d'essersi un po' insospettita per quel silenzio, ma di esser stata talmente stanca da esser caduta nel sonno. Quando entrò la mattina dopo li trovò distesi nel loro sangue ormai freddo.

Io avrei voluto piangere e piangere per la mia signora, ma tutto era sottosopra. Tutto doveva essere bruciato nella stanza dell'infermo, avevano detto i dottori, e le salme dovevano essere cremate senza indugio. La Casa fu posta sotto quarantena, così che solo i sacerdoti della magione poterono officiare il rito funebre. Nessuno fu autorizzato a uscire dalla tenuta per venti giorni. Ma molti degli stessi dottori se ne andarono quando Erod, che era adesso il nuovo signore di Shomeke, comunicò loro cosa intendeva fare. Ne avevo sentito qualche confuso accenno da Ahas, ma nel mio dolore non gli avevo prestato molta attenzione.

Quella sera tutti i domestici della Casa erano radunati fuori del Tempietto di Nostra Signora durante il rito funebre per ascoltare i canti e le preghiere. I Boss e i castrati avevano condotto la gente del complesso, e si tenevano dietro di noi. Vedemmo il corteo che usciva, le bianche bare portate a spalla, le pire accese, il fumo nero che saliva verso l'alto. Prima ancora che il fumo terminasse la sua ascesa, il nuovo signore di Shomeke venne verso di noi, là dove ci trovavamo.

Erod si mise in piedi su un cumulo di terra dietro il tempietto e parlò con una voce forte come non gli avevo mai sentito. Sempre, nella Casa, aveva bisbigliato nel buio. Ora era giorno pieno, e la sua voce era potente. Se ne stava lì nero ed eretto nei bianchi paramenti di lutto. Non aveva ancora vent'anni. Disse, «Ascoltatemi, gente! Siete stati schiavi, ora sarete liberi. Siete stati mie proprietà, ora sarete padroni delle vostre vite. Stamattina ho inviato alle autorità l'Ordine di Emancipazione per ogni proprietà della tenuta, quattrocentoundici fra uomini, donne e bambini. Venite domattina nel mio ufficio, alla Casa dei Conti, e vi consegnerò i vostri documenti. Ciascuno di voi figura su quei documenti come persona libera. Nessuno potrà mai più farvi ritornare schiavi. Da domani in poi sarete liberi di fare quello che volete. Ognuno di voi riceverà del denaro per iniziare la sua nuova vita. Non quello che meritereste, non quello che vi spetterebbe per tutto il lavoro fatto per noi, ma quello che io sono in grado di darvi. Io sto per lasciare Shomeke. Andrò nella capitale, dove lavorerò per la liberazione di tutti gli schiavi di Werel. Il Giorno della Libertà, già sorto su Yeowe, sorgerà anche da noi, e presto. Chi di voi vuol venire con me, venga! Ci sarà da fare per tutti!»

Mi ricordo tutto quello che disse. Ho ripetuto il suo discorso parola per parola. Quando uno non sa leggere e non ha la mente sovraffollata da immagini della rete, la parola parlata si incide a fondo nella memoria.

Ci fu un silenzio tale, quando finì di parlare, come io non avevo mai sentito prima.

Uno dei dottori cominciò a parlare, facendo presente a Erod che doveva osservare la quarantena.

«Il male è stato divorato dal fuoco,» disse Erod, indicando con un ampio gesto la colonna di fumo nero che saliva. «Questo è stato un luogo di sventura, ma nessun male verrà mai più da Shomeke!»

A questo punto un suono lento e sommesso s'alzò fra la gente del complesso che stava alle nostre spalle, e crebbe fino a diventare un gran boato di giubilo misto a pianto, a grida, a canti. «Signore Kamye! Signore Kamye!» gridavano gli uomini. Una vecchia si fece avanti. Era mia nonna. Passò attraverso noi schiavi della Casa come se attraversasse un campo di grano. Si fermò a una certa distanza da Erod. Fecero tutti silenzio, per ascoltare la nonna. Disse, «Signor padrone, ci stai cacciando dalle nostre case?»

«No,» rispose lui. «Sono vostre. E vostra è la terra per coltivarla. Il profitto dei campi sarà vostro. Questa è casa vostra, e voi siete liberi!»

A questo punto le acclamazioni esplosero di nuovo, così forti che dovetti chinarmi e tapparmi le orecchie, ma anch'io piangevo e gridavo con loro a una voce le lodi del signor Erod e del Signore Iddio Kamye.

Ballammo e cantammo dinanzi alle pire fumanti fino al calar del sole. Alla fine le nonne e i castrati fecero rientrare la gente nel complesso, dicendo che le carte non erano ancora pronte. Noi domestici rientrammo senza fretta nella Casa, fantasticando sul domani, quando avremmo avuto libertà, denaro e terra.

Tutto il giorno seguente Erod sedette nella Casa dei Conti a preparare i documenti per ciascuno schiavo, e a ciascuno offrì la stessa somma di denaro: cento kue in contanti e un accredito di cinquecento kue presso la banca regionale, che non poteva essere ritirato prima di quaranta giorni. Questo per evitare, spiegò a ciascuno, di cadere vittime di gente senza scrupoli prima di aver potuto decidere cosa fare del denaro. Consigliò loro di formare una cooperativa, di socializzare i fondi, di gestire democraticamente la tenuta. «Denaro in banca, o Signore!» gridò fra le lacrime un vecchio tutto deforme, traballando sulle gambe curve. «Denaro in banca, o Signore!»

Chi lo desiderava, disse e ripeté Erod molte e molte volte, poteva tenere da parte il denaro e contattare l'Hame, che l'avrebbe aiutato a pagarsi un passaggio su Yeowe. «Oh, oh, Yeowe,» qualcuno cominciò a cantare cambiando le parole:

«Tutti ci vogliono andar.

Oh, oh, Yeowe,

Tutti ci vogliono andar!»

Continuarono a cantare quella canzone tutto il giorno. Ma niente poteva alterarne la tristezza. Mi viene ancora da piangere quando ripenso a quel canto, in quel giorno.

La mattina dopo Erod partì. Non vedeva l'ora di lasciare il luogo della sua infelicità e di cominciare la sua nuova vita nella capitale lottando per la libertà. Non mi salutò nemmeno. Prese con sé Geu e Ahas. I dottori e i loro aiutanti e schiavi erano già partiti tutti il giorno prima. Guardammo il suo aereo innalzarsi per aria.

Tornammo nella Casa. Sembrava una cosa vuota. Non c'erano più possidenti, più nessuno che dava ordini, più nessuno che ci dicesse cosa fare.

Mia madre e io andammo a raccogliere i nostri vestiti. Non ci eravamo scambiate che poche parole, ma sentivamo che non era il caso di restare lì dentro. Sentimmo altre donne che correvano per il beza, mettendo sottosopra le stanze della signora Tazeu, frugando nei suoi armadi, ridendo e strillando d'eccitazione nel trovare gioielli e oggetti di valore. Sentimmo voci di uomini nel salone: le voci dei Boss. Senza una parola mia madre e io prendemmo quel che avevamo tra le mani e uscimmo da una porta di servizio, sgusciammo fra i reticolati del giardino e corremmo per tutta la strada fino al complesso.