— Te ne sei andato?
— Sì, me ne sono andato. Sono andato a Valle Grande. Ma qualcun altro si incaricò degli elenchi, alle fabbriche di Gomito. C’è sempre qualcuno disposto a fare elenchi.
— E questo è sbagliato — disse il macchinista, aggrottando la fronte al riverbero del deserto. Aveva volto bruno e testa calva, non gli restavano capelli tra le guance e l’occipite, anche se non doveva avere più di quarantacinque anni. Era un volto robusto, duro e innocente. — È sbagliato marcio. Avrebbero dovuto chiudere le cave. Non puoi chiedere a un uomo di fare quel genere di cose. Non siamo forse Odoniani? Un uomo può perdere la ragione, certo. È ciò che è successo alla gente che ha assalito i treni. Aveva fame, i bambini avevano fame, erano affamati da troppo tempo, c’è del cibo che ti passa davanti e non è per te, e allora perdi la ragione e cerchi di prenderlo. E lo stesso è successo al mio amico: quella gente faceva a pezzi il treno che gli era stato affidato, lui ha perso la ragione e ha innestato la retromarcia. Ma non si è messo a contare le teste. Non sul momento! Più tardi, magari. Perché ha avuto la nausea quando ha visto ciò che aveva fatto. Ma quello che ti volevano far fare… dire: «Questo qui vive e quello là muore…» non è un lavoro che una persona abbia il diritto di fare, o di chiedere a un altro di fare.
— Sono stati tempi duri, fratello — disse il passeggero, con gentilezza, osservando il pianoro abbacinante dove l’ombra dell’acqua ondeggiava e si allontanava spinta dal vento.
Il vecchio dirigibile da trasporto dondolò un’ultima volta sulla montagna e attraccò all’aeroporto di Monte Rene. Ne scesero tre passeggeri. Proprio mentre l’ultimo dei tre toccava terra, il suolo si raccolse e sgroppò. — Terremoto — disse; era di quelle parti, e tornava a casa. — Maledizione, guarda che polvere! Un giorno scenderemo qui e non troveremo più il Monte.
Due dei passeggeri attesero che venisse fatto il carico sui furgoni, poi vi salirono anch’essi. Shevek preferì camminare, poiché l’uomo di quelle parti gli aveva detto che Chakar distava solamente sei chilometri, a valle.
La strada scendeva con una serie di lunghe curve, con una piccola salita alla fine di ciascuna curva. Le pendici in salita, a sinistra della strada, e le pendici in discesa, a destra, erano coperte di cespugli di holum; filari di alti alberi di holum, distanziati così bene da parere piantati dalla mano dell’uomo, seguivano vene di acqua corrente lungo i fianchi della montagna. Dalla cima di un’altura, Shevek vide il chiaro colore dorato del tramonto al di sopra delle montagne scure e molteplicemente ripiegate. L’unico segno dell’uomo intorno a lui era la strada stessa, che scendeva fra le ombre. Quando cominciò a scendere, l’aria brontolò un poco ed egli provò una sensazione di stranezza: non una scossa, non un tremito, ma uno spostamento, una convinzione che ci fosse qualcosa di sbagliato. Terminò il passo, e il terreno era lì a incontrare il suo piede. Andò avanti; la strada continuò a rimanere distesa. Non aveva corso pericoli, ma mai, in nessun pericolo, egli si era sentito così vicino alla morte. La morte era in lui, sotto di lui; la terra stessa era incerta, inattendibile. Il sicuro, l’attendibile, è una promessa fatta dalla mente umana. Shevek sentì la fredda, pulita aria nella bocca e i polmoni. Ascoltò. Lontano, un torrente di montagna scrosciava sotto di lui, da qualche parte, nell’ombra.
Giunse a Chakar nel tardo crepuscolo. Il cielo era viola scuro al di sopra delle montagne nere. I lampioni splendevano, luminosi e solitari. Le facciate delle case parevano incompiute, abbozzate nella luce artificiale, le zone disabitate erano scure dietro di esse. C’erano molti terreni incolti, molte case singole: una vecchia città, una città di frontiera, isolata, dispersa. Una passante indicò a Shevek il Domicilio Otto: — Da quella parte, fratello, dopo l’ospedale, alla fine della strada. — La strada si tuffava nel buio ai piedi della montagna e terminava davanti alla porta di un basso edificio. Egli entrò e trovò un atrio da domicilio di città di campagna che lo riportò alla sua fanciullezza, ai luoghi di Libertà, Monte Tamburo, Piano Grande, dove aveva abitato insieme con il padre: la luce scarsa, le stuoie rappezzate; un volantino che descriveva un gruppo locale di addestramento per meccanici, l’annuncio delle riunioni di una federativa, e il volantino per la recita di un dramma, tre decadi prima, affisso alla bacheca degli avvisi; un dipinto dilettantesco, con cornice, di Odo in prigione, sopra il sofà della stanza comune; un armonium fatto in casa; la lista dei residenti e l’avviso delle ore di distribuzione dell’acqua calda ai bagni cittadini, affisso a fianco della porta.
Sherut, Takver, N. 3.
Bussò, osservando i riflessi della lampada del corridoio sulla superficie scura della porta, che non era perfettamente in quadro negli stipiti. Una donna disse: — Entra! — Egli aprì la porta.
La lampada della stanza era dietro di lei. Non poté vedere abbastanza bene, per qualche istante, ed essere sicuro che fosse Takver. Ella gli stava di fronte. Alzò il braccio, come per allontanarlo o per afferrarlo: un gesto incerto, non terminato. Egli le prese la mano, e poi si abbracciarono, si unirono e rimasero fermi, stretti, sull’inattendibile terra.
— Entra — disse Takver, — oh, entra, entra.
Shevek aprì gli occhi. In mezzo alla stanza, che ancora gli appariva luminosissima, egli scorse il viso serio, attento di una bambina piccola.
— Sedik, questo è Shevek.
La bambina si avvicinò a Takver, si tenne alla sua gamba, e scoppiò in pianto.
— Ma non piangere, perché piangi, animuccia?
— E perché piangi tu? — bisbigliò la bambina.
— Perché sono felice! Solo perché sono felice. Siediti sulle mie ginocchia. Ma Shevek, Shevek! La tua lettera è arrivata soltanto ieri. Intendevo andare al telefono portando Sedik a dormire. Dicevi che avresti chiamato questa sera. Non che saresti venuto questa sera! Oh, non piangere, Sedik, guarda, io non piango più, no?
— Anche l’uomo piangeva.
— Certo che piangevo.
Sedik lo guardò con curiosità e diffidenza. Aveva quattro anni. Aveva la testa rotonda, la faccia tonda, era tonda, scura, ricciolina, morbida.
L’unico mobilio della stanza erano le due predelle dei letti. Takver si sedette su una con Sedik sulle ginocchia, Shevek si sedette sull’altra e allungò le gambe. Si asciugò gli occhi con il dorso della mano e mostrò le nocche a Sedik. — Vedi — le disse, — sono umide. E mi cola il naso. Hai un fazzoletto?
— Sì. Perché, tu no?
— Io lo avevo, ma si è perso in una lavanderia.
— Puoi dividere con me il fazzoletto che uso — disse Sedik, dopo una pausa.
— Non so dove sia — le disse Takver.
Sedik scese dalle ginocchia della madre e andò a prendere un fazzoletto nell’armadio a muro. Lo diede poi a Takver, che lo passò a Shevek. — È pulito — disse Takver, con il suo largo sorriso. Sedik osservò attentamente mentre Shevek si soffiava il naso.
— C’è stato un terremoto, poco tempo fa? — chiese.
— Trema sempre, alla fine non te ne accorgi più — disse Takver, ma Sedik, felice di dispensare informazioni, disse con la sua voce, acuta ma un po’ rauca: — Sì, ce n’è stato uno grosso, prima di pranzo. Quando c’è un terremoto le finestre grattano e il pavimento dondola, e devi andare alla porta o fuori di casa.
Shevek guardò Takver; lei gli restituì lo sguardo. Pareva invecchiata più di quattro anni. Non aveva mai avuto i denti molto a posto, ed ora gliene mancavano due, quelli dietro i canini superiori, e si vedevano i buchi quando sorrideva. La sua pelle non aveva più la levigatezza tesa della gioventù, e i capelli, ben pettinati all’indietro, erano opachi.
Shevek vide chiaramente che Takver aveva perso la propria grazia giovanile, e aveva l’aspetto di una donna ordinaria, stanca, vicina alla metà della vita. Lo vide più chiaramente di quanto lo avrebbe potuto vedere chiunque altro. Vide ogni cosa di Takver in un modo in cui nessun altro la avrebbe potuto vedere, la vide dalla posizione in cui lo mettevano gli anni di intimità e gli anni d’attesa. La vide come era.