— Sono tutte sdraiate nude a prendere il sole — disse Kvetur, — con un gioiello nell’ombelico e senza neppure un pelo.
Silenzio.
Erano saliti sulla collina per rimanere tra maschi. La presenza di femmine risultava opprimente per tutti. Pareva loro che negli ultimi tempi il mondo si fosse riempito di ragazze. Dovunque posassero gli occhi, svegli o addormentati, vedevano ragazze. Tutti avevano provato a copulare con le ragazze; alcuni, disperati, avevano anche cercato di non copulare con le ragazze; la cosa non faceva differenza. Le ragazze c’erano lo stesso.
Tre giorni prima, in un corso di Storia di Movimento Odoniano, tutti avevano assistito alla stessa lezione visiva, e l’immagine dei gioielli iridescenti nella cavità levigata degli addomi femminili oliati e abbronzati, si era ripresentata a ciascuno di loro, privatamente.
Avevano anche visto i cadaveri di bambini, pelosi come loro, ammucchiati come rottami di metallo, rigidi e rugginosi, su una spiaggia, e uomini che versavano petrolio sui bambini e davano fuoco. «Una carestia nella Provincia di Bachifoil della Nazione di Thu — aveva detto la voce del commentatore. — I corpi di bambini morti di inedia e di malattia sono bruciati sulle spiagge. Sulla spiaggia di Tius, ad alcune centinaia di chilometri di distanza, nella nazione di A-Io (e lì arrivavano i gioielli nell’ombelico), donne riservate per l’uso sessuale di appartenenti maschili alla classe abbiente (venivano usate le parole iotiche, dato che in pravico non esistevano gli equivalenti di nessuna delle due), sdraiate sulla sabbia tutto il giorno, finché non viene servito loro il pranzo da appartenenti alla classe non abbiente.» Primi piani del pranzo: bocche delicate che mangiano e sorridono, mani lisce che prendono manicaretti glassati da piatti d’argento. Poi brusco ritorno al volto cieco e torvo di un bambino morto: la bocca aperta, vuota, nera, secca. «A fianco a fianco» aveva detto la voce tranquilla.
Ma l’immagine che si era innalzata come bolla iridescente nel cervello dei ragazzi era stata uguale per tutti.
— Quanto hanno, quei film? — disse Tirin. — Sono di prima dell’Insediamento, o sono di oggi? Non ce lo dicono mai.
— Che importa? — disse Kvetur. — Vivevano così, su Urras, prima della Rivoluzione Odoniana. Tutti gli Odoniani se ne andarono e vennero qui su Anarres. Perciò, probabilmente, non è cambiato nulla… continuano a fare così, lassù. — Indicò la grande Luna verdazzurra.
— Come possiamo dirlo?
— Spiegati meglio, Tirin — chiese Shevek.
— Se quelle immagini hanno un secolo e mezzo, le cose potrebbero essere molto diverse, su Urras, oggi. Non dico che lo siano, ma, se lo fossero, come potremmo saperlo? Noi non andiamo su Urras, non parliamo con loro; non ci sono comunicazioni. In verità non abbiamo idea di come sia la vita, oggi, su Urras.
— La gente del CDP lo sa. Parlano con gli urrasiani dei mercantili che scendono al Porto di Anarres. Si tengono informati. Ed è necessario che lo siano, in modo da poter mantenere gli scambi con Urras, e anche per sapere con esattezza l’entità della minaccia che rappresentano per noi. — Bedap parlava con ragionevolezza, ma la risposta di Tirin fu brusca: — Allora, forse il CDP è informato, ma noi no.
— Informato! — esclamò Kvetur. — Sento parlare di Urras fin da quando ero al nido d’infanzia! E vorrei evitare di vedere altre fotografie di città urrasiane piene di sporcizia e di corpi urrasiani pieni di grasso!
— Appunto — disse Tirin, con il brio di chi sta seguendo un processo logico. — Tutto il materiale su Urras disponibile per gli studenti è sempre uguale. Disgustoso, immorale, escrementale. Ma ascoltate. Se stavano tanto male quando i Primi Coloni partirono, come hanno fatto ad andare avanti per un altro secolo e mezzo? Se erano così malati, perché non sono morti? Perché la loro società proprietaristica non si è sfasciata? Che cosa temiamo tanto, noi?
— L’infezione — disse Bedap.
— Siamo così deboli da non poter sopportare una piccola esposizione? E poi, non possono essere tutti malati. Indipendentemente da quel che è la loro società, alcuni di loro devono essere delle brave persone. La gente, qui da noi, varia molto; perché non dovrebbero variare anche loro? Siamo tutti dei perfetti Odoniani, noialtri? Guardate quel moccolone di Pesus!
— Ma in un organismo malato, anche le cellule sane sono condannate — disse Bedap.
— Oh, si può provare qualsiasi cosa, usando l’Analogia; e tu lo sai. E poi, come facciamo, noi, effettivamente, a sapere che la loro società è malata?
Bedap si rosicchiò l’unghia del pollice. — Tu stai ora affermando che il CDP e l’organizzazione di distribuzione sussidi didattici ci mentono a proposito di Urras.
— No; ho detto semplicemente che sappiamo soltanto ciò che ci viene detto. E sai che cosa ci viene detto? — Il volto scuro, dal naso camuso, di Tirin, ora chiaro sotto la luce chiara e azzurrognola della Luna, si volse verso di loro. — Kvetur l’ha nominato un attimo fa. Ha afferrato il messaggio. Voi l’avete udito: detestate Urras, odiate Urras, abbiate paura di Urras.
— E perché no? — domandò Kvetur. — Guarda come hanno trattato noi Odoniani!
— Ci hanno dato la loro Luna, no?
— Sì, per impedirci di sfasciare la loro società di profittatori e di instaurare lassù la società della giustizia. E non appena si sono sbarazzati di noi, ci scommetterei, si sono messi ad organizzare governi ed eserciti più in fretta che mai, dato che non c’era più nessuno a fermarli. Se noi aprissimo loro il Porto, credi che verrebbero come amici e fratelli? Un miliardo di loro e venti milioni di noi? Ci spazzerebbero via tutti, oppure ci renderebbero, com’è quella parola, schiavi, a lavorare nelle miniere per loro.
— Va bene. Sono d’accordo sul fatto che sia saggio, probabilmente, avere paura di Urras. Ma perché odiare? L’odio non è funzionale; perché ce lo insegnano? O forse la spiegazione è che se sapessimo com’era in realtà Urras, essa ci piacerebbe… qualche sua parte… a una parte di noi? Che la cosa che il CDP intende evitare non sia, semplicemente, che alcuni di loro vengano qui, ma che alcuni di noi desiderino di andare lassù?
— Andare su Urras? — disse Shevek, stupito.
Discutevano perché amavano le discussioni, amavano la rapida corsa della mente libera lungo i sentieri delle possibilità, amavano mettere in dubbio ciò che non veniva mai messo in dubbio. Erano intelligenti, le loro menti erano già disciplinate alla chiarezza della scienza, e avevano sedici anni. Ma a questo punto il piacere della discussione cessava per Shevek, come già era cessato per Kvetur. Si sentiva a disagio. — Chi vuoi che desideri andare su Urras? — domandò. — E a che scopo?
— Per scoprire com’è fatto un altro mondo. Per vedere che cos’è un «cavallo»!
— Infantile — disse Kvetur. — C’è vita anche su alcuni altri sistemi solari — e indicò con la mano il cielo illuminato dalla Luna, — così ci dicono. E allora? Noi abbiamo avuto la fortuna di nascere qui!
— Se fossimo migliori di ogni altra società umana — disse Tirin, — allora dovremmo aiutarla. Ma questo ci è proibito.
— Proibito? Parola non organica. Chi lo probisce? Stai esternalizzando la funzione integrativa stessa — disse Shevek, piegandosi in avanti e parlando con passione. — L’ordine non sono «ordini». Noi non lasciamo Anarres perché noi siamo Anarres. Dato che tu sei Tirin, non puoi lasciare la pelle di Tirin. Forse ti piacerebbe cercare di essere qualcun altro, per vedere cosa si prova; ma tu non puoi farlo. E allora, forse ti viene impedito con la forza? E noi, siamo tenuti qui con la forza? Quale forza… quali leggi, governi, polizia? Nessuno. Semplicemente la nostra natura di Odoniani. È la tua natura quella di essere Tirin, ed è la mia natura quella di essere Shevek, e nostra comune natura è quella di essere Odoniani, responsabili l’uno all’altro. E questa responsabilità è la nostra libertà. Evitarla, sarebbe perdere la nostra libertà. A te, piacerebbe davvero vivere in una società nella quale tu non avessi alcuna responsabilità e alcuna libertà, alcuna scelta, soltanto la falsa opzione dell’obbedienza alla legge, o la disobbedienza seguita poi dalla punizione? Vorresti davvero andare a vivere in una prigione?