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— Sembri una copertina di Frazetta — disse Gaby.

Si guardò. I suoi vestiti erano stracciati, cenciosi. La sua pelle era pallidissima là dov’era abbastanza pulita da trasparire al naturale. Era enormemente dimagrita; le ossa le sporgevano all’infuori. Mani e piedi si erano induriti.

— E io che avrei voluto fare la ballerina in un musical…

Spense il fiammifero, ne accese un altro. Gaby continuava a guardarla con occhi che brillavano, e lei d’improvviso si sentì molto bene. Sorrise, rise, appoggiò una mano sulla spalla di Gaby. Gaby fece altrettanto, con un mezzo sorriso sulle labbra.

— Ti sembra… Ti sembra che ci voglia qualche cerimonia particolare? — Gaby indicò la cima delle scale con la spada.

— Forse. — Rise di nuovo, scrollò le spalle. — Niente di sublime. Dovremmo salire in punta di piedi.

Gaby non rispose. Si asciugò il palmo della mano sulla coscia, poi afferrò l’impugnatura della spada. Rise.

— Non so come usarla.

— Fai finta di saperlo. Appena arriviamo in cima alle scale, butta via tutto.

— Sicura?

— Non voglio pesi extra.

— Il mozzo è molto grande, Rocky. Forse impiegheremo parecchio a esplorarlo.

— Ho idea che non ci metteremo molto. Anzi, faremo prestissimo.

Spensero anche il secondo fiammifero. Attesero finché gli occhi si furono abituati alla nuova luminosità, finché riuscirono a vedere di nuovo la debole luce di fronte a loro.

Poi s’incamminarono, fianco a fianco, su per gli ultimi cento scalini.

Salirono fra tenebre rosse, pulsanti.

La sola fonte di luce era una linea nettissima sopra le loro teste, come un raggio laser.

Il tetto del mozzo spariva nelle tenebre. Alla loro sinistra, il cavo era un’ombra di buio ancora più fitto.

Le pareti, il pavimento, l’aria stessa seguivano il ritmo di un battito molto lento. Il vento freddo che spirava dall’attaccatura del raggio di Oceano sfiorò le loro facce.

— Sarà difficile dare un’occhiata — sussurrò Gaby. — Io ho una visuale di una ventina di metri.

Cirocco non disse niente. Scosse la testa per allontanare la strana sensazione che s’era impadronita di lei. Voleva sedersi, voleva tornare indietro. Aveva paura, e le mancava il coraggio di lasciarlo capire.

Alzò la spada, la vide splendere, simile a un lago di sangue. Fece un passo avanti, un altro. Gaby le tenne dietro.

Quando si accorse che i muscoli della bocca le dolevano perché li aveva tesi troppo, si fermò.

— Sono qui — urlò.

Dopo secondi interminabili le giunse un’eco, e poi tutta una serie di echi. Alzò la spada sopra la testa e urlò di nuovo.

— Sono qui! Sono il capitano Cirocco Jones, Comandante del Ringmaster! Vengo a nome degli Stati Uniti d’America e di tutte le nazioni della Terra! Voglio parlarti!

Trascorsero secoli prima che gli echi svanissero. Poi, restò solo il battito lento di quel cuore mostruoso. Schiena contro schiena, le spade puntate, scrutarono nelle tenebre.

Un’ondata di collera s’impossessò di Cirocco, cancellò le ultime tracce di paura.

Brandì la spada e gridò nella notte, mentre le lacrime le scendevano lungo le guance.

— Chiedo di vederti! La mia amica e io abbiamo superato innumerevoli difficoltà per arrivare al tuo cospetto. Il terreno ci ha risputate nude su questo mondo. Ci siamo fatte strada sino alla cima. Tutti noi siamo stati trattati crudelmente, abbiamo dovuto ubbidire a desideri che non comprendiamo. La tua mano si è protesa nelle nostre anime e ha cercato di strapparci la dignità, ma non ci siamo piegati. Ti sfido! Mostrati, rispondimi! Rispondi di quello che hai fatto, altrimenti dedicherò tutta la mia esistenza alla tua distruzione! Non ho paura di te! Sono pronta a combattere!

Chissà da quanto tempo Gaby la stava tirando per un braccio. Cirocco abbassò gli occhi, mise a fuoco lo sguardo con una certa difficoltà. Gaby sembrava spaventata, ma restava al suo fianco.

— Forse… — disse timidamente. — Ecco, forse non parla inglese.

Allora Cirocco cantò la sfida nel linguaggio dei titanidi. Usò il tono declamatorio, il tono riservato al racconto di grandi imprese. Le pareti del mozzo, buie e impenetrabili, le rimandarono il canto.

Il terreno sotto di loro cominciò a vibrare.

— Iiiiiioooo…

Era una sola nota, una parola, un uragano.

— Tiiiiiiiiii…

Cirocco cadde in ginocchio accanto a Gaby.

— Seeeeeeeentooooooooo…

Quelle parole echeggiarono per molti minuti, poi si spensero nel mormorio lontano di una sirena. Il terreno smise di tremare, e Cirocco alzò la testa.

Restò accecata da una luce bianca.

Si schermò gli occhi col braccio. Da una delle pareti stava scendendo un sipario, alto cinque chilometri. Dietro, c’era una scala di cristallo. La luce verso cui saliva la scala era tanto forte che Cirocco non poteva guardarla.

Gaby la stava di nuovo tirando per la manica. — Andiamo via — le sussurrò, preoccupata.

— No. Sono arrivata fin qui per parlarle.

Si costrinse, con tutta la forza della sua volontà, ad alzarsi in piedi. Il difficile era non cadere. Il suggerimento di Gaby le sembrava, adesso, un’ottima idea; però si incamminò verso la luce.

L’apertura era larga duecento metri, fiancheggiata da colonne di cristallo che dovevano essere l’estremità superiore dei cavi. Alzò gli occhi. I cavi s’intrecciavano fra loro, per poi riunirsi in un enorme cesto che occupava il tetto gigantesco, lontano. Era quella l’ancora, incredibilmente forte, che teneva unita Gea.

Poi, guardando con più attenzione, scoprì che diversi cavi erano spezzati.

Questo la fece sentire meglio. Per quanto Gea fosse grande, aveva conosciuto giorni migliori.

Salirono sull’ultima rampa di scalini. Cominciò a emettere una nota bassa che si protrasse mentre salivano. Il settimo gradino raggiunse l’altezza di un semitono, il tredicesimo lo trasformò in un diesis. Procedevano lentamente lungo la scala cromatica e quando raggiunsero la prima ottava s’insinuò finalmente la prima armonica.

E all’improvviso, attorno a loro si alzarono fiamme arancioni. Gaby e Cirocco volarono letteralmente due metri in aria, prima che la scarsa gravità le riportasse giù.

Cirocco, fortunatamente, sentì di nuovo montare dentro di sé la collera. Era un buon trucco, ben concepito; ma su di lei ebbe un effetto negativo. Dea o non dea, era un effettaccio da baraccone, studiato per piegare animi già deboli. Gea non aveva niente da invidiare ai buffoni che leggono il futuro sulla mano.

— Sembra uno spettacolo da circo equestre — disse Gaby, e Cirocco ne fu immensamente felice. Una dea non avrebbe avuto bisogno di tutto quell’apparato.

Le fiamme si alzarono due volte, poi scomparvero. Gaby e Cirocco proseguirono.

Davanti a loro apparvero immensi cancelli di rame e d’oro, che si spalancarono e si richiusero senza il minimo rumore.

La musica raggiunse apici folli, mentre si avvicinavano a un grande trono circonfuso di luce. Quando arrivarono alla grande piattaforma di marmo ai piedi della scala, era impossibile guardare il trono. Il caldo era insopportabile.

— Parla.

Quella parola venne pronunciata nei toni cupi che avevano udito fuori, ma in maniera più umana. La luce si abbassò. Cirocco, con una serie di occhiate guardinghe, intravvide fra i bagliori una figura umana, alta e grande.

— Parla, oppure torna indietro.

Cirocco socchiuse gli occhi. Vide una testa tondeggiante posata su un collo sottile, occhi che brillavano come giaietto, labbra sottili. Gea era alta quattro metri, ritta immobile su un piedistallo di due metri davanti al trono. Il suo corpo possedeva un ventre mostruoso, seni enormi, braccia e gambe che avrebbero impressionato un lottatore professionista. Era nuda, color verde oliva.

Il piedistallo cambiò improvvisamente forma, diventò una collina verdeggiante coperta di fiori. Le gambe di Gea divennero tronchi d’albero, i suoi piedi radici che affondavano nella terra scura. Animali di ogni tipo le saltavano attorno mentre creature alate volteggiavano attorno alla sua testa. Fissò Cirocco, e la sua espressione non era più molto amichevole.