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Muovendo la mascella, Leo richiamò sullo schermo inserito all’interno della visiera del casco i livelli di energia e di carburante della propria tuta: aveva giusto il tempo di assistere alla sistemazione del primo gruppo di moduli prima di essere costretto a rientrare per riposarsi e rimettere in efficienza la tuta. Tuttavia, non avrebbe disdegnato un periodo di meritato riposo anche parecchie ore prima. Sbatté le palpebre, cercando di strofinarsi gli occhi affaticati e senza dubbio iniettati di sangue, succhiando un’altra sorsata di caffè caldo dal tubo. Voleva anche del caffè fresco. Quella roba che stava bevendo adesso era rimasta là fuori almeno quanto lui, e stava assumendo un sapore cattivo e un colore verdastro.

Il D-620 si affiancò all’Habitat, adeguando la velocità, e spense i motori. Le luci di volo si spensero mentre quelle di parcheggio, che segnalavano che ci si poteva avvicinare senza pericolo, cominciarono a lampeggiare. Immensi fasci di luce illuminarono il grande spazio di carico, quasi volessero annunciare: benvenuti a bordo.

Lo sguardo di Leo si concentrò sulla sezione dell’equipaggio, minuscola a confronto dei bracci arcuati. Con la coda dell’occhio vide una caspula passeggeri staccarsi dal fianco di dritta della supernave e avviarsi verso l’Habitat. Qualcuno che era diretto a casa… Silver, forse? Ti? Doveva parlare con Ti il più presto possibile. Un nodo di cui finora non si era accorto si sciolse nel suo stomaco. Silver era tornata sana e salva. Si corresse: tutti erano tornati. Ma non erano ancora in salvo. Attivò i razzi della tuta e raggiunse la sua squadra di quad.

Trenta minuti più tardi, Leo vide con immenso sollievo il primo grappolo di moduli scivolare senza problemi nell’abbraccio del D-620. Nei suoi incubi, che nemmeno i ripetuti controlli dei dati avevano potuto dissipare, si era raffigurato qualche contrattempo, seguito da interminabili ritardi per apportare le necessarie correzioni. Il fatto di non aver ancora saputo nulla da terra, a parte i ripetuti inviti a comunicare, non lo rassicurava granché. I dirigenti della GalacTech su Rodeo alla fine avrebbero dovuto compiere qualche mossa e non c’era nulla che lui potesse fare per controbattere, finché non sapeva che forma avrebbe assunto. L’apparente paralisi di Rodeo non sarebbe durata a lungo.

Ma adesso era giunto il momento di staccare. Forse sarebbe riuscito a persuadere il dottor Minchenko a rifilargli qualcosa per il suo mal di testa che sostituisse le otto ore di sonno che non si sarebbe concesso. Leo si inserì nel canale di comunicazione riservato ai capisquadra.

— Bobbi, prendi tu il comando, io rientro. Pramod, porta dentro la tua squadra appena avete imbullonato le ultime cinghie. Bobbi, assicurati che il secondo gruppo di moduli sia assicurato a dovere prima di procedere ai collegamenti dei portelli stagni, d’accordo?

— Sì, Leo, non preoccuparti — Bobbi, all’estremità più distante del gruppo di moduli, segnalò di aver ricevuto il messaggio agitando una delle mani inferiori.

Mentre Leo si voltava, uno dei rimorchiatori monoposto che aveva contribuito a sistemare i moduli si staccò e ruotò su se stesso, preparandosi ad allontanarsi per scortare il successivo gruppo di moduli che veniva allineato proprio in quel momento dietro la supernave. Uno dei razzi direzionali sbuffò e poi, proprio mentre Leo lo guardava, emise un improvviso e intenso fiotto azzurro. Il movimento rotatorio accelerò.

È senza controllo! pensò Leo, guardandolo con gli occhi sbarrati. Nella frazione di secondo necessaria per aprire il canale giusto nell’unità di comunicazione della tuta, la rotazione si trasformò in un avvitamento. Il rimorchiatore sfrecciò a tutta velocità, mancando per un soffio un quad in tuta da lavoro. Mentre Leo lo osservava inorridito, il rimorchiatore rimbalzò su una delle gondole dei bracci della supernave che contenevano le barre Necklin e continuò la sua corsa nello spazio.

Dal canale radio sintonizzato con il rimorchiatore uscì un grido inarticolato. Leo schiacciò un altro pulsante. — Vatel! — gridò al quad che manovrava il più vicino degli altri rimorchiatori monoposto. — Inseguilo!

Il secondo rimorchiatore ruotò su se stesso e partì a tutta velocità: attraverso il largo oblò anteriore del rimorchiatore, Leo intravide il lampo di una delle mani guantate di Vatel che segnalava di aver ricevuto l’ordine. Trattenne l’impulso irresistibile di lanciarsi direttamente all’inseguimento: c’era maledettamente poco che potesse fare con una tuta in riserva di energia. Era tutto nelle mani di Vatel.

Era stato un errore umano, o quad, o un difetto meccanico a causare l’incidente? Be’, sarebbe stato in grado di scoprirlo molto in fretta, una volta recuperato il rimorchiatore. Se il rimorchiatore veniva recuperato… Scacciò con forza quel pensiero e accese i razzi, dirigendosi verso la gondola della barra Necklin.

Il rivestimento aveva una profonda intaccatura nel punto in cui era entrato in collisione con il rimorchiatore. Leo cercò di rassicurarsi. Si tratta solo del rivestimento esterno. Esiste proprio per proteggere il nucleo interno da incidenti del genere, giusto? Sibilando costernato, si girò per illuminare con la luce della tuta la buia apertura grande quanto un uomo che si trovava ad un’estremità della copertura.

Oh, Dio!

Il riflettore di vortice era incrinato. Largo più di tre metri, di forma ellittica, modellato e rifinito con precisione matematica nell’ordine degli angstrom, era una superficie di controllo integrale per il sistema di balzo, che rifletteva, diffondeva o amplificava il campo Necklin generato dalle barre principali secondo la volontà del pilota. Non solo era incrinato, ma la brillante superficie di freddo titanio era addirittura squarciata e deformata al di là di ogni limite. Leo gemette.

Un’altra luce brillò nell’apertura. Leo volse lo sguardo e vide Pramod alle sue spalle.

— È proprio brutto come sembra? — disse la voce di Pramod, soffocata dalla radio.

— Sì — sospirò Leo.

— Non… non si può fare una riparazione con una saldatura, vero? — La voce di Pramod si stava alzando di tono. — Che faremo ora?

Sfinimento e paura, la peggior combinazione possibile… Leo diede alla sua voce stanca un tono neutro. — I livelli di energia della mia tuta dicono che adesso ce ne torneremo dentro e ci prenderemo un po’ di riposo. Poi si vedrà.

Con grande sollievo di Leo, quando si tolse la tuta venne informato che Vatel aveva già recuperato il rimorchiatore vagante riportandolo all’attracco del suo modulo dell’Habitat. Il pilota quad che scese dal veicolo era terrorizzato e presentava numerose escoriazioni.

— Si è bloccato, non sono riuscita a manovrarlo — pianse la ragazza. — Che cosa ho colpito? Ho colpito qualcuno? Non volevo liberarmi del carburante, ma è stato l’unico sistema che mi è venuto in mente per spegnere i razzi. Mi spiace averlo sprecato. Non sono riuscita a spegnere…

Non aveva più di quattordici anni, giudicò Leo. — Da quanto sei assegnata a questo turno di lavoro? — le chiese.

— Da quando abbiamo cominciato — rispose lei, tirando su con il naso. Era sospesa in aria a testa in giù accanto a lui e tremava visibilmente… le tremavano tutte e quattro le mani. Leo resistette all’impulso di rimetterla in posizione «ritta».

— Buon Dio, bambina, ma sono più di ventisei ore filate. Fai una sosta. Mangia qualcosa e vai a dormire.

Lei lo guardò sbalordita. — Ma le unità dormitorio sono tutte staccate e legate insieme ai nidi. Non posso andarci da qui.

— È per questo che…? Senti, tre quarti dell’Habitat sono inaccessibili in questo momento. Ancorati in un angolo dello spogliatoio o da qualunque altra parte. — E osservando perplesso le sue lacrime, aggiunse: — È permesso. - Era chiaro che lei voleva la sua amaca, che certo Leo in quel momento non poteva darle.