Lois McMaster Bujold
Gravità zero
A papà
CAPITOLO PRIMO
Il bordo lucente del pianeta Rodeo balenò confuso davanti all’oblò di osservazione della stazione orbitale di trasferimento. Una donna, che Leo Graf aveva notato tra gli altri passeggeri sbarcati dalla nave a balzo, rimase a guardare affascinata per alcuni minuti, poi si voltò, battendo le palpebre e andò a sedersi di scatto su una delle sdraio imbottite di cuscini dagli allegri colori. Chiuse gli occhi, poi li riaprì, colse lo sguardo di Leo e scrollò le spalle, imbarazzata. Leo le rivolse un sorriso pieno di comprensione. Fortunatamente immune dai vari malesseri dei viaggi spaziali, egli si accostò al portello prendendo il suo posto.
Poche nuvole sparse turbinavano nella rarefatta atmosfera sottostante, velando a malapena quella che sembrava un’eccessiva quantità di sabbia rossastra. Rodeo era un pianeta di scarsa importanza, che ospitava solo le attività minerarie e di trivellazione della GalacTech oltre alle strutture di supporto vitale. Ma che cosa era venuto a fare lì? Si chiese per l’ennesima volta. Le operazioni sotterranee non erano il suo campo.
Il movimento di rotazione della stazione eclissò l’immagine del pianeta, allora Leo si accostò ad un altro portello per poter vedere il mozzo della ruota della stazione, annotando mentalmente i punti di sollecitazione e chiedendosi quando erano stati radiografati l’ultima volta per controllare la presenza di eventuali incrinature in espansione. Le forze di gravità centrifughe sul bordo esterno, dove era situato quel salone per i passeggeri, dovevano essere circa la metà di quelle standard terrestri, forse anche lievemente inferiori. Una deliberata riduzione di sollecitazione, in vista di noie alle strutture?
Ma lui era stato chiamato per tenere un corso di addestramento, così avevano detto al Quartier Generale della GalacTech sulla Terra, per insegnare le procedure di controllo di qualità delle tecniche di saldatura e di costruzione in assenza di gravità. A chi? E perché proprio lì, ai confini dell’universo? «Progetto Cay» era una designazione stranamente anonima per un incarico del genere.
— Leo Graf?
Leo si voltò. — Sì?
L’uomo che aveva parlato, alto e con i capelli scuri, poteva avere dai trenta ai quarant’anni. Indossava abiti civili di taglio sobrio, ma un distintivo poco appariscente sul risvolto della giacca indicava che era un uomo della Compagnia. Il classico dirigente sedentario, lo classificò Leo. La mano che gli tese era leggermente abbronzata ma morbida. — Sono Bruce Van Atta.
La mano robusta di Leo era pallida e punteggiata da macchie marroni. Ormai prossimo ai quaranta, robusto e chiaro di capelli, Leo indossava invece, per abitudine di vecchia data, la comoda tuta rossa della Compagnia, in parte per non spiccare troppo in mezzo agli operai con i quali lavorava, ma soprattutto perché non aveva mai né voglia né tempo da perdere alla mattina per decidere cosa mettersi. «Graf» indicava la dicitura stampata sopra il taschino sinistro, eliminando ogni dubbio.
— Benvenuto su Rodeo, l’ascella dell’universo — lo salutò Van Atta con un sorrisetto.
— Grazie — fu la risposta automatica di Leo accompagnata da un sorriso.
— Sono io il responsabile del Progetto Cay ora, e quindi sarò il suo capo — spiegò Van Atta. — Sono stato io a volerla qui, sa. Lei mi aiuterà a dare finalmente una scossa a questa sezione, ed a farla finalmente decollare. Siamo uguali, io e lei, lo so, non sopportiamo i fannulloni. Mi hanno scaricato addosso un bel fardello, quando hanno deciso di far funzionare come si deve questa sezione… ma se ci riuscirò, sarò considerato un fenomeno.
— È stato lei a volermi qui? — Era consolante sapere che la sua reputazione l’aveva preceduto, ma perché non capitava mai di venir richiesti personalmente per un incarico in un luogo paradisiaco? Ah, be’… — Al Quartier Generale mi è stato detto che mi mandavano qui perché tenessi una versione ampliata del mio breve corso in procedure di controllo non distruttive.
— E non le hanno detto altro? — chiese sbalordito Van Atta, e quando Leo scosse le spalle in segno di diniego, gettò la testa all’indietro, scoppiando in una risata. — Ragioni di sicurezza, immagino — spiegò, quando riuscì a smettere di ridacchiare. — L’aspetta una bella sorpresa. Bene, bene, non sarò certo io a rovinargliela. — Il sorrisetto malizioso di Van Atta era sgradevole quanto una confidenziale gomitata nelle costole.
Troppo confidenziale… oh, all’inferno, pensò Leo, questo tizio mi ha già conosciuto da qualche parte e crede che anch’io lo riconosca… Una vaga sensazione di panico congelò il sorriso educato di Leo. Nei suoi diciotto anni di carriera aveva incontrato migliaia di funzionari della GalacTech; forse Van Atta avrebbe presto rivelato qualcosa che avrebbe ridotto la rosa di possibilità.
— Le mie istruzioni parlano di un certo Dottor Cay come responsabile del Progetto Cay — azzardò Leo. — Quando lo incontrerò?
— Informazione non aggiornata — disse Van Atta. — Il Dottor Cay è morto lo scorso anno, ben oltre la data in cui, a parer mio, avrebbe dovuto essere spedito in pensione, ma era uno dei vice-presidenti e tra i maggiori azionisti, e inoltre aveva molti appoggi… ma questa è acqua passata. Il suo posto l’ho preso io. — Van Atta scosse il capo. — Ma non vedo l’ora di godermi l’espressione della sua faccia quando vedrà… venga, c’è una navetta privata che ci sta aspettando.
A parte il pilota, la navetta a sei posti adibita al trasporto del personale, era tutta per loro. Il sedile si modellò attorno al corpo di Leo durante le brevi fasi di accelerazione. Periodi davvero brevi: era chiaro che non stavano frenando per rientrare nell’atmosfera del pianeta. Rodeo ruotava sotto di loro, allontanandosi sempre di più.
— Dove stiamo andando? — chiese a Van Atta seduto accanto a lui.
— Ah! Vede quel puntolino a circa trenta gradi sopra l’orizzonte? Lo osservi bene, è quella la sede del Progetto Cay.
Il puntolino s’ingrandì rapidamente, trasformandosi in una struttura caotica, tutta ad angoli e spigoli, con luci colorate che illuminavano come lustrini le ombre nette. L’occhio esercitato di Leo individuò le strutture principali: i serbatoi, i portelli di carico, i filtri per le serre che baluginavano alla luce del sole, le dimensioni dei pannelli solari in rapporto al volume approssimativo della struttura.
— Un habitat orbitale?
— Esatto — rispose Van Atta.
— È enorme.
— Davvero. Quante persone pensa che ospiti?
— Oh… mille e cinquecento.
Van Atta sollevò un sopracciglio, forse per il disappunto di non poter correggere la cifra. — Praticamente esatto: millequattrocentonovantaquattro dipendenti della GalacTech a rotazione e mille abitanti permanenti.
Le labbra di Leo ripeterono la parola «permanenti»… — Parlando di rotazione: come vi regolate con il personale per il decondizionamento dall’assenza di gravità? — Il suo sguardo abbracciò l’enorme struttura. — Perché infatti non vedo neppure una ruota per l’esercizio fisico… niente palestra rotante?
— C’è una palestra a gravità zero. Il personale che si avvicenda, trascorre un mese a terra per ogni turno di tre mesi.
— Costoso.
— Ma abbiamo costruito l’Habitat a meno di un quarto del costo necessario per lo stesso volume di spazio abitativo con un sistema di gravità artificiale.
— Ma certamente a lungo termine perderete quello che avete risparmiato sulla costruzione, dovendo sostenere i costi di trasporto del personale e le spese mediche — ribatté Leo. — I viaggi delle navette, le lunghe licenze, tutti coloro che se ne vanno in pensione con un braccio o una gamba rotte, citeranno la GalacTech per i danni, compresi quelli psicologici, anche nel caso che non fosse stata accertata una significativa demineralizzazione delle ossa.