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Ben Bova

La prova del fuoco

1

Era una notte senza luna. La brezza estiva frusciava nell'oscurità della foresta facendo mormorare gli alberi. Sulla cima della montagna, lontano dai rumori e dalle luci delle città, il cielo era profondo e stupendo, scintillante di migliaia di stelle.

Con la pipa stretta fra i denti, il dottor Robert J. Lord stava appoggiato al parapetto che circondava la cupola dell'osservatorio. Riusciva a malapena a distinguere nell'ombra i lineamenti della studentessa che gli stava accanto.

— Questa sarà la tua vita — le disse parlando sottovoce. — Se continuerai negli studi e prenderai la laurea in astronomia ottica, verrai a lavorare qui, una notte dopo l'altra, fino all'alba.

Jenny Robertson aveva freddo. Si era verso la metà d'agosto, ma lì sulle montagne del New England di notte faceva freddo quasi come in inverno. Non voglio che lui capisca che sto gelando, si disse. I disagi fisici sono cose che un astronomo deve sapere sopportare. E poi, se appena rabbrividisco, lui cercherà di abbracciarmi.

— La notte è lunga — disse Lord, — e ci si sente molto soli.

Jenny sapeva tutto di lui. Il dottor Lord era in ottima forma per i suoi cinquant'anni. Come tutti gli studenti della facoltà, anche lei sapeva che l'astronomo si era sposato e aveva divorziato due volte. E sapeva anche che dal dottor Robert J. Lord si poteva ottenere un bel trenta seguendo il metodo adottato da Hester Prynne.

— Ma una volta programmate le coordinate per le osservazioni della notte, poi non ci pensa il computer? — chiese Jenny, stringendosi le braccia intorno al petto, pentita di non essersi messa un maglione più pesante. — Insomma, voglio dire che non è così indispensabile restare qui tutta la notte. O no?

Lord si tolse la pipa di bocca e si gingillò prendendo tempo per elaborare una risposta che facesse colpo su quella studentessa diplomata, con la faccia sveglia… e il seno florido.

— Oh, certo! Qui tutto è automatizzato. Sia il computer sia i dispositivi che rinforzano le immagini possono funzionare autonomamente, così come la macchina da ripresa — disse con leggerezza. — Ma alcuni di noi preferiscono restare sul posto tutta la notte per essere sicuri che tutto proceda come deve. Quanto a me, credo di essere piuttosto all'antica in proposito.

— Oh, no — si affrettò a ribattere lei. — Secondo me siete… be', siete molto coscienzioso. — Così dicendo Jenny pensava al modo migliore per rimediare un bel voto senza che lui le mettesse le mani addosso.

Lord si strinse nelle spalle con fare modesto. — Vedi, c'è sempre la possibilità che accada qualcosa di inaspettato. Magari un guasto alle apparecchiature, oppure qualcosa di insolito che richiede un esame immediato.

— Vi è mai capitato di osservare un fenomeno imprevisto? — chiese Jenny. — Una cosa che nessuno aveva mai visto prima.

— Be', no — ammise lui. — Non ancora, ma…

S'interruppe, accorgendosi che poteva osservare chiaramente la faccia di lei. Voltandosi, guardò verso oriente, dove il cielo era di un biancore latteo. Guardò l'ora. C'era abbastanza luce per distinguere le lancette.

— Le due e dodici — mormorò. — Mancano cinque ore all'alba.

Un soffio di brezza tiepida li avvolse, e Jenny si rilassò. Non aveva più la pelle d'oca. Ma Lord fissava a bocca aperta il cielo che si andava schiarendo.

— Non è possibile — disse. — Non è possibile.

Il vento aumentava, sempre più caldo, come in un meriggio di mezza estate. La foresta che circondava la montagna sospirava e gemeva squassata dal vento. Il cielo assunse il colore del rame fuso, e le stelle sbiadirono. Gli uccelli cominciarono a cinguettare sugli alberi.

E Lord, intanto, continuava a guardare il cielo sempre più luminoso. — Oh, Dio mio — sussurrò. — Oh, Dio mio…

A Roma il sole era già sorto da più di un'ora e la città risuonava degli ululati dei clacson e delle grida dei guidatori impazienti che si sporgevano dai finestrini delle auto per insultarsi.

Di punto in bianco l'aria divenne insopportabilmente calda e luminosa, come se dappertutto fossero stati accesi tanti riflettori. Il traffico rallentò fino a fermarsi. La gente si guardò intorno spaventata. Gli automobilisti scesero dalle macchine. Come tanti ubriachi cercarono di farsi strada barcollando nel traffico intasato. La luce divenne sempre più vivida e calda, intollerabilmente soffocante, come se un'enorme piastra di ferro rovente schiacciasse tutto e tutti. Le donne urlavano e svenivano. Gli uomini cadevano nelle pozze di asfalto sciolto ribollente. Gli alberi cominciarono a bruciare senza fiamme lungo i viali, mentre la gente si rifugiava urlando nelle case. Le tende s'incendiarono. Nei giardini vaticani sbocciò una distesa di fiori di fuoco. Le fontane evaporarono. Tutta la città cominciò a fumare e ad ardere sotto il cielo ardente.

Tutta l'Italia, tutta l'Europa, l'Africa, l'Asia bruciarono. Ovunque arrivò la luce del sole, fiorirono fiamme e morte. Morirono milioni, centinaia di milioni di persone in pochi attimi. Tutte le foreste dell'Africa equatoriale divamparono mentre gli animali, in preda al panico, correvano alla ricerca di un impossibile rifugio. Ovunque era il terrore: l'atavico terrore che assimila l'uomo alla bestia. Nel terrore primordiale morirono i cacciatori pigmei nel cuore delle foreste in preda alle fiamme. Nel terrore morirono gli uomini d'affari vestiti all'occidentale nelle città moderne. Nel terrore morirono tutti. Chi con gli abiti che prendevano fuoco non appena sfiorati dal sole, chi soffocato dal fumo nelle tempeste di fuoco che divamparono in tutti i continenti.

Le città divennero forni. I prati, mari di fuoco. Via via che il tocco dell'alba avanzava da ovest sul pianeta rotante, le sue dita brucianti uccisero tutto ciò che toccavano. I ghiacciai svizzeri cominciarono a sciogliersi e masse d'acqua si riversarono sui villaggi in preda al fumo e alle fiamme che divoravano i prati alpini. Parigi divenne una torcia, e così Londra. A nord del Circolo polare artico, i Lapponi nelle loro pellicce estive divamparono mentre le loro renne cadevano e arrostivano nella tundra fumante.

La linea dell'alba corse verso ovest attraverso l'Atlantico, ma intanto la luce e il calore andavano diminuendo. Così come improvvisamente era divampato, così, da un istante all'altro, il sole perse di luminosità. Il caos era durato meno di un'ora. Se valutato sulla scala di valori termici della ribollente fornace solare, il fenomeno era assimilabile a una perturbazione di secondaria importanza, ma aveva ridotto in cenere due terzi del mondo abitato. Una coltre di fumo copriva l'Asia da Tokyo agli Urali, tutta l'Europa, l'Africa e l'Australia.

Gli americani sfuggirono all'ira del sole. O quasi.

Giù nelle viscere della terra, al di sotto del solido granito degli Urali, Vasily Brudnoy fissava inorridito lo schermo.

Era lo schermo più grande nel centro controllo missili, largo quindici metri abbondanti. Mostrava tutta l'Unione Sovietica con luci bianche che contrassegnavano le città più grandi, luci rosse che indicavano i centri militari, e grappoli di luci arancione che contrassegnavano i silos dei missili ICBM.

Vasily, capitano dopo dieci anni di servizio nell'Armata Rossa, sentiva sul collo il respiro ansante del generale Kubacheff.

— Riprovate Mosca — ordinò il generale.

Vasily premette i pulsanti corrispondenti sulla tastiera, premendo con la mano libera l'auricolare applicato all'orecchio sinistro. Stava chino in avanti, tutto intento, come se potesse costringere Mosca a rispondere grazie alla sua sola forza di volontà.

Niente. Solo il ronzìo dell'onda portante.

— Non rispondono, signore.

Il generale Kubacheff si portò alle labbra una sigaretta turca. — Leningrado — ordinò brusco. E quando Vasily gli ripeté che non riceveva risposta, sbuffò una nuvola di fumo grigio. — Rostov. Gorki. Qualcuno deve rispondere!