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Ripensò alla Signora Piantini, che piegava le gambe grassocce e contava fra sé. Cinque. Fino a quel momento non si era reso di quanto fosse faticoso suonare le campane. Ogni tiro della corda sembrava strappargli il respiro dai polmoni. Sei.

Avrebbe voluto fermarsi per riposare ma non voleva che Kivrin, in ascolto dentro la chiesa, pensasse che si era arreso, che aveva avuto intenzione di finire soltanto ciò che lei aveva cominciato. Accentuò la stretta intorno al nodo e si appoggiò per un istante alla parete di pietra, cercando di attenuare la tensione al petto.

— Si sente bene, Signor Dunworthy? — chiese Colin.

— Sì — rispose lui, e tirò con tanta violenza che i polmoni parvero lacerarglisi. Sette.

Non avrebbe dovuto appoggiarsi contro il muro, perché le pietre erano fredde come il ghiaccio e adesso aveva ricominciato a rabbrividire. Pensò alla Signora Taylor che cercava di finire la Sorpresa di Chicago in chiave minore, contando quanti colpi mancavano e cercando di non cedere al martellamento che avvertiva nella testa.

— Posso finire io — si offrì Colin, senza che lui quasi lo sentisse. — Posso andare a chiamare Kivrin e insieme riusciremo a suonare gli ultimi due colpi. Tireremo tutti e due.

— Ogni uomo deve restare alla sua campana — rifiutò Dunworthy, scuotendo il capo con il fiato corto, e tirò ancora la corda. Otto.

Non doveva lasciar andare la corda. La Signora Taylor era svenuta e l'aveva lasciata andare, e la campana aveva ondeggiato da un lato all'altro con la corda che si contorceva come una cosa viva, avvolgendosi intorno al collo di Finch e quasi strozzandolo. Doveva restare aggrappato ad essa, nonostante tutto.

Tirò ancora la corda, restando appeso ad essa finché non fu certo di potersi reggere in piedi, poi allentò la tensione.

— Nove — disse.

Colin lo stava fissando con espressione accigliata.

— Sta avendo una ricaduta, non è così? — chiese, in tono sospettoso.

— No — ribatté Dunworthy, e lasciò andare la corda.

La mucca aveva infilato la testa nella porta e lui la spinse di lato rudemente per tornare nella chiesa.

Al suo ingresso trovò Kivrin ancora inginocchiata accanto a Roche, con la mano rigida del morto sempre stretta nella sua.

— Ho suonato la campana — disse, fermandosi davanti a lei. Kivrin sollevò lo sguardo senza annuire.

— Non crede che ora sarebbe meglio andare? — suggerì Colin. — Si sta facendo buio.

— Sì — assentì Dunworthy. — Credo che faremo meglio…

L'attacco di vertigine lo colse del tutto alla sprovvista e barcollò, cadendo quasi addosso al corpo di Roche.

Kivrin protese la mano per sorreggerlo e Colin si tuffò in avanti con la luce della torcia che ondeggiava in maniera assurda sul soffitto, afferrandolo per un braccio. Lui stesso si puntellò su un ginocchio e con il palmo della mano e protese l'altra verso Kivrin, che però era scattata in piedi e stava indietreggiando.

— È malato — disse in tono di accusa, di condanna. — Ha preso la peste, vero? — aggiunse, tradendo per la prima volta nella voce una traccia di emozione. — Non è vero?

— No — replicò Dunworthy, — è…

— Sta avendo una ricaduta — spiegò Colin, infilando la torcia nel cavo del braccio della statua in modo da poter aiutare Dunworthy a sedersi. — Non ha prestato attenzione ai miei cartelli.

— Si tratta di un virus — precisò Dunworthy, sedendosi con la schiena appoggiata alla statua. — Non è la peste. Entrambi ci siamo fatti praticare iniezioni di streptomicina e di gammaglobuline. Non possiamo prendere la peste. È un virus — ripeté, abbandonando la testa all'indietro contro la statua. — Starò subito bene, mi basta qualche momento di riposo.

— Gli ho detto che non doveva suonare la campana — dichiarò Colin, svuotando il sacco di tela sul pavimento di pietra e avvolgendolo intorno alle spalle di Dunworthy.

— Ci sono ancora delle aspirine? — chiese questi.

— Può prenderle soltanto ogni tre ore — gli ricordò Colin, — e non dovrebbe prenderle senz'acqua.

— Allora portami dell'acqua — scattò lui.

Colin guardò Kivrin per cercare sostegno ma lei era ancora in piedi dall'altro lato del corpo di Roche, intenta a fissare Dunworthy con espressione guardinga.

— Subito — ingiunse Dunworthy, e Colin corse fuori, con gli stivali che echeggiavano sul pavimento di pietra.

Dunworthy spostò quindi lo sguardo su Kivrin, che indietreggiò di un passo.

— Non si tratta della peste, ma di un virus — insistette. — Temevamo che tu fossi stata esposta ad esso prima di venire qui. Lo sei stata?

— Sì — replicò la ragazza, inginocchiandosi di nuovo accanto a Roche. — Lui mi ha salvato la vita.

Nel parlare lisciò con le mani la coperta purpurea e Dunworthy si rese conto che si trattava di un mantello di velluto, con una larga croce di seta bianca cucita al centro.

— Mi ha detto di non avere paura — mormorò Kivrin, tirando su il mantello a coprire il petto del morto, sotto le mani incrociate.

Quel gesto lasciò però scoperti i piedi chiusi negli spessi, assurdi sandali, e Dunworthy si tolse il sacco di tela dalle spalle per adagiarlo con gentilezza su di essi prima di alzarsi con cautela, reggendosi alla statua per non cadere di nuovo.

— Non voleva farmi del male — disse Kivrin, battendo un altro colpetto sulle mani di Roche.

Colin tornò con un secchio pieno a metà di acqua che doveva aver trovato in una pozzanghera.

— La mucca mi ha aggredito — dichiarò, con il fiato corto, tirando fuori dal secchio un mestolo sporco e rovesciando le aspirine nella mano di Dunworthy. Ne restavano cinque.

Dunworthy ne prese due, inghiottendole con la minor quantità di acqua possibile, e porse le altre a Kivrin che le accettò con un gesto solenne, ancora inginocchiata sul pavimento.

— Non sono riuscito a trovare cavalli — avvertì Colin. — Soltanto un mulo.

— Un asino — lo corresse Kivrin. — Maisry ha rubato il pony di Agnes. — Restituì a Colin il mestolo e tornò ad afferrare le mani di Roche. — Ha suonato la campana per tutti, perché la loro anima potesse andare in cielo.

— Non crede che faremmo meglio ad andare? — sussurrò Colin. — Fuori è quasi buio.

— Perfino per Rosemund — continuò Kivrin, come se non avesse sentito. — Era già malato. Gli ho detto che non c'era tempo, che dovevamo partire per la Scozia.

— Ora dobbiamo andare — dichiarò Dunworthy, — prima che scenda il buio.

Lei non si mosse né lasciò andare la mano di Roche.

— Mi ha tenuto la mano quando stavo morendo.

— Kivrin — chiamò Dunworthy, con gentilezza.

Lei sfiorò la guancia di Roche con le dita, lo fissò per un lungo momento e infine si sollevò sulle ginocchia. Dunworthy si protese per aiutarla ma lei riuscì ad alzarsi in piedi da sola, con la mano premuta contro il fianco, e si avviò lungo la navata.

Sulla soglia si volse a guardarsi indietro nell'oscurità.

— Mentre stava morendo mi ha detto dove si trova il sito, perché potessi tornare in cielo. Ha detto che voleva che lo lasciassi solo e che andassi, in modo che quando fosse giunto mi avrebbe già trovata ad attenderlo — mormorò, ed uscì fra la neve.