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— Sì — rispose.

— Di chi è? — insistette Colin, accarezzando timidamente il muso della bestia.

— Nostro — replicò Dunworthy, stringendo la cinghia del sottopancia; Ignorando le proteste di Colin, issò quindi il ragazzo in groppa dietro la sella e montò a sua volta.

Lo stallone non si era ancora reso conto di essere libero e girò la testa con aria accusatoria quando lui gli assestò un colpetto gentile ai fianchi, ma subito dopo si avviò al trotto lungo la strada coperta di neve, deliziato della propria libertà.

Colin si aggrappò freneticamente a Dunworthy, stringendolo intorno al petto proprio nel punto in cui era annidato il dolore, ma dopo un centinaio di metri si sedette più eretto e cominciò a chiedere come si facesse a guidare l'animale e a farlo andare più in fretta.

Impiegarono pochissimo tempo a tornare alla strada principale. Una volta lì Colin avrebbe voluto che raggiungessero la siepe e tagliassero attraverso i campi, ma Dunworthy diresse lo stallone dall'altra parte. Dopo mezzo chilometro la strada si biforcò e lui prese la diramazione di sinistra.

Quella strada mostrava molti più segni di passaggio della precedente, anche se i boschi circostanti erano ancora più fitti. Adesso il cielo era del tutto coperto e il vento stava aumentando d'intensità.

— Lo vedo! — esclamò Colin, abbandonando la presa per un momento per indicare un punto oltre una macchia di frassini, dove era possibile intravedere un tetto di pietra grigia che spiccava sullo sfondo del cielo… forse una chiesa, o magari una stalla. La costruzione si trovava verso est e quasi subito dopo averla avvistata trovarono un sentiero che si diramava dalla strada e oltrepassava un traballante ponte di legno gettato su un ruscello per poi attraversare uno stretto prato.

Lo stallone non rizzò gli orecchi né tentò di accelerare il passo, e da questo Dunworthy dedusse che non doveva provenire da quel villaggio… il che era un bene, altrimenti avrebbero potuto essere impiccati per furto prima ancora di avere il tempo di chiedere dove fosse Kivrin. Poi vide le pecore.

Gli animali giacevano sul fianco, simili a mucchi di lana sporca, anche se alcune si erano raggomitolate vicino agli alberi nel tentativo di tenersi al riparo dal vento.

— Cosa faremo quando arriveremo? — domandò Colin, che non si era accorto di nulla. — Entreremo di soppiatto oppure ci presenteremo apertamente per chiedere a qualcuno se l'ha vista?

Non ci sarà nessuno a cui chiedere, pensò Dunworthy, spingendo lo stallone al trotto; oltrepassata la macchia di frassini, arrivarono al villaggio.

Esso non era per nulla come nelle illustrazioni del libro di Colin, con gli edifici disposti in cerchio intorno ad uno spiazzo centrale; invece, le case erano sparpagliate fra gli alberi, quasi nascoste una all'altra. Poteva intravedere i tetti coperti di paglia e più lontano, in un altro boschetto di frassini, la chiesa, ma in quella radura piccola quanto quella del sito c'erano soltanto una casa di legno e una bassa baracca.

L'edificio era troppo piccolo per poter essere un maniero… forse era l'abitazione del castaldo o dell'intendente. La porta di legno della baracca era aperta e la neve si era accumulata sulla soglia; dal tetto non usciva traccia di fumo e non si sentivano rumori di sorta.

— Forse sono fuggiti — suggerì Colin. — Molte persone sono fuggite quando hanno sentito che stava arrivando la peste. È stato così che si è diffuso il contagio.

Forse gli abitanti erano davvero fuggiti. La neve davanti alla casa era pressata e dura, come se molte persone e molti cavalli avessero sostato nel cortile.

— Resta qui con il cavallo — ordinò Dunworthy, ed entrò in casa. Anche quella porta non era chiusa, sebbene fosse stata accostata quasi del tutto, e lui dovette chinarsi per oltrepassare la bassa soglia.

L'interno era gelido e così buio dopo il chiarore abbagliante della neve che per un po' non riuscì a vedere altro che una chiazza rossa davanti agli occhi. Spalancò la porta, ma la luce continuò ad essere scarsa e tutto pareva sfumato di rosso.

Quella doveva essere la casa del castaldo, perché c'erano due stanze, divise da una partizione di legno, e il pavimento era coperto da stuoie. Il tavolo era nudo e il focolare doveva essere spento da giorni, come testimoniava l'odore di cenere fredda che pervadeva l'ambiente. Il castaldo e la sua famiglia erano fuggiti, e forse anche il resto degli abitanti, portando senza dubbio con loro la peste. E anche Kivrin.

Si appoggiò contro lo stipite della porta, mentre la morsa al petto tornava di colpo a causargli dolore: si era preoccupato di molte cose riguardo a Kivrin, ma non aveva mai pensato a questo… al fatto che poteva essere andata via.

Andò a guardare nell'altra stanza, e in quel momento Colin si affacciò alla soglia.

— Il cavallo continua a cercare di bere da un secchio che c'è là fuori. Devo permetterglielo? — chiese.

— Sì — rispose Dunworthy, mettendosi in modo che il ragazzo non potesse vedere oltre la partizione. — Però non permettergli di bere troppo, perché è rimasto senz'acqua per giorni.

— In ogni caso nel secchio non ce n'è molta — ribatté Colin, guardandosi intorno nella stanza con espressione interessata. — Questa è una delle capanne dei servi, giusto? Non erano poi così poveri, vero? Ha trovato qualcosa?

— No — replicò Dunworthy. — Torna fuori e sorveglia il cavallo. E non gli permettere di allontanarsi.

Colin uscì, sfiorando con la testa l'architrave della porta.

Il neonato giaceva su un sacco di lana in un angolo, e a quanto pareva era stato ancora vivo quando sua madre era morta, perché la donna era stesa sul pavimento con le braccia protese verso di esso. Entrambi erano scuri, quasi neri, e i pannolini del piccolo erano rigidi per il sangue secco.

— Signor Dunworthy! — chiamò Colin, in tono allarmato, e Dunworthy si voltò di scatto, timoroso che il ragazzo fosse entrato di nuovo… lui però era ancora fermo accanto allo stallone, che aveva il muso immerso nel secchio.

— Cosa c'è? — domandò.

— C'è qualcosa laggiù, per terra — spiegò Colin, indicando verso le altre capanne. — Credo che sia un corpo.

E assestò alle redini uno strattone così deciso che il secchio si rovesciò e la poca acqua residua andò a formare una pozzanghera sulla neve.

— Aspetta — cominciò Dunworthy, ma il ragazzo stava già correndo verso gli alberi, seguito dallo stallone.

— È un c… — iniziò, troncando bruscamente la frase a mezzo, e Dunworthy si mise a correre per raggiungerlo, serrandosi un braccio intorno al fianco dolorante.

Si trattava di un corpo, quello di un uomo giovane che giaceva disteso a faccia in giù nella neve in mezzo ad una pozzanghera congelata di liquido nero, con il volto coperto da una spolverata di neve… i suoi bubboni dovevano essere scoppiati. Dunworthy si girò verso Colin, ma il ragazzo non stava guardando il cadavere bensì la radura al di là di esso.

Era più grande di quella davanti alla casa del castaldo, lungo i suoi contorni sorgevano una mezza dozzina di capanne e all'estemità opposta c'era una chiesa in stile normanno. E nel centro, sulla neve calpestata, c'erano i cadaveri.

Non era stato fatto nessun tentativo di seppellirli, anche se vicino alla chiesa c'era una fossa poco profonda accanto alla quale si vedeva un mucchio di terra coperta di neve. Pareva che alcuni di quei corpi fossero stati trascinati fino al cortile della chiesa, perché si vedevano sulla neve lunghe strisce simili ai segni lasciati da una slitta… e almeno uno aveva strisciato fino alla porta della propria capanna e giaceva ora metà dentro e metà fuori della soglia.

— Temete Dio — mormorò Dunworthy, — perché l'ora del Suo giudizio è giunta.

— Sembra che qui ci sia stata una battaglia — commentò Colin.

— C'è stata — ribatté Dunworthy.

— Pensa che siano tutti morti? — domandò il ragazzo, avvicinandosi per sbirciare uno dei corpi.