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— Il silenzio non è quel che io dovrei scegliere, eppure mi è più conveniente di una menzogna.

— È ben noto che degli uomini d'onore possono essere messi fuori della legge, eppure la loro ombra non diminuisce, — disse il cuoco della taverna, che nel villaggio era secondo soltanto al capo, e la cui taverna era una specie di soggiorno dell'intero Dominio, d'inverno.

— Una persona può essere messa fuorilegge in Karhide, un'altra in Orgoreyn — disse Estraven.

— Vero; e una persona dal suo clan, un'altra dal re di Erhenrang.

— Il re non diminuisce l'ombra di nessun uomo, per quanto egli possa tentare di farlo — fece notare Estraven, e il cuore parve soddisfatto. Se fosse stato il clan di Estraven a scacciarlo, lui sarebbe stato un individuo sospetto, ma le censure del re non erano importanti. E in quanto a me, evidentemente uno straniero e di conseguenza colui che era stato messo fuorilegge in Orgoreyn, questo era semmai un titolo di credito.

Non dicemmo mai i nostri nomi a coloro che ci avevano ospitato nel Dominio di Kurkurast. Estraven era molto riluttante a usare un nome falso, e i nostri veri nomi non potevano essere pronunciati. Era, dopotutto, un crimine parlare a Estraven, e perciò ospitarlo, vestirlo e sfamarlo come quella gente aveva fatto doveva essere un delitto assai peggiore. Anche un villaggio remoto della Costa di Guthen possedeva una radio, e gli abitanti non avrebbero potuto proclamare a loro scusante l'ignoranza dell'Ordine di Esilio; solo una reale ignoranza dell'identità dei loro ospiti avrebbe potuto fornire loro una scusante. La loro vulnerabilità pesava sulla mente di Estraven, ancor prima che io avessi potuto pensarci. La terza notte egli venne nella mia stanza, per discutere la nostra prossima mossa. Un villaggio karhidi somiglia a un antico castello della Terra, nel fatto di non avere, di norma, delle abitazioni separate, private; oppure di averne pochissime. Eppure negli edifici alti, irregolari e antichi del Focolare, il Commercio, il Condominio (non esisteva un Lord di Kurkurast) e la Casa Esterna, ciascuno dei cinquecento abitanti del villaggio poteva trovare isolamento, perfino quello, nelle stanze di quegli antichi corridoi, dalle pareti di quasi un metro di spessore. Ci era stata data una stanza a testa, all'ultimo piano del Focolare. Ero seduto nella mia, accanto al fuoco, un fuoco piccolo, caldo, dall'aroma penetrante, di torba delle Paludi di Shenshey, quando entrò Estraven. Egli disse:

— Dobbiamo andarcene presto da qui, Genry.

Lo ricordo bene, in piedi, nelle ombre della stanza illuminata dal fuoco, scalzo, e con indosso solo i larghi calzoni di pelliccia che il capo gli aveva dato. Nell'intimità, e in quello che considerano il calore, delle loro case, i karhidiani spesso girano seminudi, o nudi del tutto. Nel nostro viaggio, Estraven aveva perduto tutta la solidità compatta, uniforme che contraddistingue il fisico getheniano; era magro e segnato, e il suo viso era bruciato dal freddo, quasi che fosse stato esposto al fuoco. Era una nera, dura, e sempre sfuggente figura in quella luce rapida, guizzante e irrequieta.

— Dove?

— A sud-ovest, penso. Verso la frontiera. Il nostro primo compito è quello di trovare una radio trasmittente, abbastanza potente da permetterti di chiamare la tua nave. Dopo questo potremo trovare un nascondiglio, oppure tornarcene in Orgoreyn per qualche tempo, allo scopo di evitare che una punizione cada su coloro che qui ci stanno aiutando.

— Come farai a ritornare in Orgoreyn?

— Come ho fatto l'altra volta… attraverso la frontiera. Gli Orgota non hanno niente contro di me.

— Dove potremo trovare una trasmittente?

— Non prima di Sassinoth.

Sobbalzai. E lui sorrise.

— Non ce ne sono, più vicino?

— Centocinquanta miglia, non di più; abbiamo percorso più strada, su un terreno peggiore. Ci sono delle strade ovunque; la gente ci accoglierà; potremo ottenere anche un passaggio, su una slitta a motore.

Assentii, ma ero depresso all'idea di un'altra fase del nostro viaggio invernale, e questa volta non verso un rifugio, ma di nuovo verso quella maledetta frontiera, dove Estraven avrebbe potuto ritornare in esilio, lasciandomi solo. La prospettiva era brutta.

Meditai su queste cose, e alla fine dissi:

— Ci sarà una condizione che Karhide dovrà portare a compimento, prima di poter entrare nell'Ecumene. Argaven deve revocare il tuo esilio.

Lui non disse niente, ma rimase a guardare il fuoco.

— Parlo sul serio — insistei. — Prima questo, poi il resto.

— Ti ringrazio, Genry — mi disse. La sua voce, quando parlava piano come in quel momento, aveva il timbro di una voce di donna, calda e carezzevole. Mi guardò, gentilmente, senza sorridere. — Ma è ormai molto tempo che non mi aspetto di vedere più la mia casa. Sono un esule ormai da vent'anni, vedi. Venti anni di esilio. Questo bando non è molto diverso. Saprò badare a me stesso; e tu farai bene a pensare a te, e al tuo Ecumene; e questo lo devi fare da solo. Ma stiamo dicendo tutte queste cose troppo presto. Di' alla tua nave di scendere! Quando sarà fatto questo, allora penserò a quel che segue.

Restammo per altri due giorni a Kurkurast, riposandoci e nutrendoci bene, aspettando un pressaneve che doveva giungere dal sud, e ci avrebbe dato un passaggio al ritorno. I nostri ospiti fecero narrare a Estraven l'intera storia del nostro attraversamento del Ghiaccio. Estraven la narrò come solo una persona nata e cresciuta in una tradizione letteraria tramandata oralmente avrebbe potuto narrare una storia, così che la «traversata del Gobrin» divenne una vera saga epica, piena di locuzioni tradizionali e perfino di episodi classici, rimanendo, malgrado ciò, esatta e vivida, dal fuoco sulfureo e dalla nube nera e ostile del passo tra Drumner e Dremegole agli uragani di vento urlanti che uscivano dalle gole montuose per spazzare con violenza la Baia di Guthen; senza trascurare degli interludi comici, come la sua caduta nel crepaccio, e mistici, quando egli parlò dei suoni e dei silenzi del Ghiaccio, del tempo bianco dove le ombre non esistevano, delle tenebre della notte. Io ascoltai, affascinato come tutti gli altri, fissando il volto scuro del mio amico.

Lasciammo Kurkurast all'interno della cabina di un pressaneve; stipati come sardine, a stretto contatto di gomito l'uno dell'altro; un pressaneve era un potente veicolo a motore che spianava e pressava la neve sulle strade di Karhide, il metodo più sicuro, e forse l'unico, per mantenere aperte le strade durante l'inverno; perché il tentativo di usare degli spartineve per rimuovere la bianca coltre delle strade, tenendole sgombre, avrebbe occupato metà del tempo e del denaro del regno, e d'inverno, comunque, tutto il traffico si volge sui pattini. Il pressaneve avanzò alla velocità di due miglia all'ora, e ci portò nel villaggio seguente, il più vicino a sud di Kurkurast, in piena notte. In questo villaggio, come sempre, ci venne dato il benvenuto, e fummo accolti, sfamati, e ospitati per la notte; il giorno dopo partimmo di là a piedi. Eravamo ora all'interno delle colline costiere che schermano l'entroterra dall'impeto maggiore del vento del nord che spira nella Baia di Guthen, riparati da quella barriera naturale, in una regione più popolata, e così andammo non da un accampamento all'altro, ma da un Focolare all'altro. Un paio di volte ottenemmo dei passaggi da slitte a motore, una volta per più di trenta miglia. Le strade, malgrado le frequenti e copiose precipitazioni nevose, erano ben pressate, e chiaramente tracciate e riconoscibili. C'era sempre del cibo nei nostri zaini, un ricordo degli ospiti della notte precedente; alla fine del percorso di una giornata, c'era sempre un tetto, e c'era sempre un fuoco.

Eppure quegli otto o nove giorni di facile viaggio, di tranquillo procedere attraverso una terra ospitale, furono la parte più dura e più spaventosa di tutto il nostro viaggio, peggiore ancora della scalata fino al ghiacciaio, peggiore ancora degli ultimi giorni di fame e stenti. La saga era finita, apparteneva al Ghiaccio. Eravamo molto stanchi. Stavamo andando nella direzione sbagliata. Non c'era più alcuna gioia, in noi.