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— Si è comportata bene — disse.

La sua fedeltà era estesa senza sproporzioni alle cose, le cose pazienti, ostinate, fidate che noi usiamo e alle quali ci abituiamo, le cose che vivono con noi e con le quali e grazie alle quali viviamo. Aveva nostalgia della slitta, me ne accorsi. Era addolorato, nel doverla lasciare. Ne sentiva la mancanza.

Quella sera, la settantacinquesima del nostro viaggio, il nostro cinquantunesimo giorno sull'altopiano di ghiaccio, Harhahad Anner, discendemmo dal Ghiaccio di Gobrin sul mare ghiacciato della Baia di Guthen. Viaggiammo anche questa volta a lungo e fino a tardi, fin quando non cadde la notte. L'aria era molto fredda, ma limpida e immobile, e la lucida superficie di ghiaccio, pulita e sgombera, senza il peso della slitta da portare con noi, era un invito per i nostri sci. Quando quella notte ci accampammo trovai strano, bizzarro pensare che sotto di noi non c'era più un miglio di ghiaccio, ma solo pochi metri, sotto i quali si stendeva l'acqua salata. Ma non passammo molto tempo a pensare. Mangiammo, e poi dormimmo.

All'alba, di nuovo una giornata serena, limpida, pur se terribilmente fredda, rigida, sotto i -25° allo spuntare del sole; guardando a sud, potevamo vedere la linea costiera, rigonfia qua e là nelle lingue avanzanti del ghiacciaio, allontanarsi sempre più, verso l'orizzonte meridionale, quasi in linea retta. Dapprima la seguimmo tenendoci vicinissimi alla terra. Un vento del nord ci aiutò ad andare più veloci, e noi sciammo affiancati, fino a quando non fummo accanto all'imboccatura di una valle, tra due alte colline color arancio; da quella gola venne ululando un vento di bufera, che ci abbatté entrambi come birilli. Il vento ci portò a est, e faticosamente ci allontanammo dalla costa, e quando fummo sulla livellata pianura che d'estate sarebbe ritornata un mare, finalmente riuscimmo a rialzarci in piedi, e potemmo riprendere la marcia.

— Il Ghiaccio di Gobrin ci ha sputati dalla sua bocca — dissi.

Il giorno dopo, la curva verso est della linea costiera fu evidente, direttamente davanti a noi. Alla nostra destra c'era Orgoreyn, ma quella curva azzurra, davanti a noi, era Karhide.

In quel giorno consumammo i nostri ultimi grani di Orsh, e le ultime riserve, pochi grammi, di kadik; ci erano rimaste, ormai, due libbre a testa di gichy-michy, e sei once di zucchero.

Non riesco a descrivere molto bene quegli ultimi giorni del nostro viaggio, me ne accorgo ora, perché non riesco realmente a ricordarli. La fame può affinare la percezione, ma non quando essa è combinata all'estrema stanchezza; suppongo che tutti i miei sensi fossero intorpiditi, plumbei, carichi di quella stanchezza accumulata nei lunghi giorni del viaggio. Ricordo di avere sofferto di crampi allo stomaco, i crampi della fame, ma il ricordo non è associato al dolore, i miei sensi non riuscivano a trasmettermelo, probabilmente. Avevo, mi sembra di ricordare, una sensazione vaga, continuamente, un senso di liberazione, di avere superato qualcosa, di gioia; e inoltre, la sensazione di avere un sonno tremendo, schiacciante, insopportabile, quasi. Raggiungemmo la terra il dodici, Posthe Anner, e ci inerpicammo su una spiaggia ghiacciata, addentrandoci poi nella desolazione rocciosa e nevosa della Costa di Guthen.

Eravamo in Karhide. Avevamo raggiunto la nostra destinazione. Poco mancò che non si trattasse di una vittoria inutile, perché i nostri zaini erano vuoti.

Per celebrare il nostro arrivo il nostro festino fu solo a base di acqua bollente. Il mattino dopo ci alzammo e andammo alla ricerca di una strada, di un centro abitato, di qualcosa. Si trattava di una regione desolata, e non ne possedevamo una mappa. Le strade potevano essere sotto due o tre metri di neve, se ne esistevano, e forse ne attraversammo diverse, senza neppure accorgercene. Non c'era alcun segno di coltivazioni. Quel giorno ci spingemmo a sud-ovest, alla cieca, e lo stesso il giorno dopo, e alla sera del giorno dopo, vedendo una luce ardere su una lontana collina, attraverso le ombre del crepuscolo e la neve che cadeva, sottile e rada, nessuno di noi riuscì a dire qualcosa, per qualche tempo. Restammo fermi, a guardare. Finalmente il mio compagno disse, raucamente:

— È una luce, quella?

La notte era caduta già da molto tempo, quando finalmente giungemmo, barcollando, quasi cadendo, in un villaggio karhidi, una strada tra case nere, dal tetto alto, la neve pressata e accumulata fino alle porte invernali. Ci fermammo alla locanda, attraverso le finestre strette della quale usciva, in fessure e raggi e frecce, la luce gialla che avevamo visto tra le colline bianche d'inverno. Aprimmo la porta, ed entrammo.

Era Odsordny Anner, l'ottantunesimo giorno del nostro viaggio; avevamo undici giorni di ritardo sul programma di Estraven. Lui aveva calcolato con esattezza le nostre provviste di cibo; settantotto giorni, al massimo. Avevamo percorso 840 miglia, la misurazione della slitta più una supposizione per quegli ultimi giorni, dopo l'abbandono della slitta. Molte di queste miglia erano state perdute rifacendo la strada già percorsa, e se avessimo avuto realmente ottocento miglia da coprire, non ce l'avremmo mai fatta; quando finalmente avemmo una buona mappa, calcolammo che la distanza tra la Fattoria Pulefen e questo villaggio era meno di 730 miglia. Tutte quelle miglia, e tutti quei giorni, erano stati di desolazione, attraverso bianche distese senza case, senza una parola umana: roccia, ghiaccio, cielo, e silenzio: niente altro, per ottantuno giorni, se non la compagnia l'uno dell'altro.

Ed entrammo in una grande sala, illuminata vividamente, bollente e fumante, piena di cibo e degli odori del cibo, e di persone e delle voci delle persone. Io mi aggrappai alla spalla di Estraven. Volti stranieri si girarono verso di noi, occhi stranieri, volti strani e occhi strani. Avevo dimenticato che esistesse qualcuno, tra i vivi, che non avesse l'aspetto e i lineamenti di Estraven. Fui preso dal terrore.

In realtà, si trattava di una stanzetta piuttosto piccola, e la folla di stranieri che vi si trovava era composta da sette od otto persone, le quali certamente erano rimaste sorprese, e spaventate quanto me, almeno per un poco. Nessuno viene nel Dominio di Kurkurast in pieno inverno, dal nord, di notte. Ci guardarono, attoniti, e socchiusero gli occhi, ansiosi, e tutte le voci tacevano, e c'era silenzio.

Estraven parlò, un mormorio appena udibile.

— Domandiamo l'ospitalità del Dominio.

Rumore, brusio, confusione, allarme, benvenuto.

— Siamo venuti attraverso il Ghiaccio di Gobrin.

Ancor più rumore, voci, domande; si affollarono intorno a noi.

— Volete aiutare il mio amico?

Mi era parso di averlo detto io, ma era stato Estraven, invece. Qualcuno mi aiutava a sedere. Ci portarono del cibo; ci aiutarono, ci curarono, ci accolsero, ci diedero il benvenuto, come se fossimo ritornati a casa da un lungo viaggio.

Anime avvolte dall'oscurità, primitive, appassionate, ignoranti, contadini di una terra povera, la loro generosità diede una conclusione nobile a quel duro viaggio. Diedero con entrambe le mani, generosamente, senza fermarsi. Non misurarono, non contarono, non esitarono. E così Estraven ricevette quel che essi ci davano, come un Lord tra i lords suoi pari, o come un mendicante tra i mendicanti, un uomo tra la gente del suo popolo.

Per gli abitanti di quel villaggio di contadini e pescatori, gente povera che vive sul bordo del bordo, all'estremo limite abitabile di un continente a malapena abitabile, l'onestà è essenziale come il cibo. Devono comportarsi con giustizia e onestà l'uno con l'altro; non c'è abbastanza per ingannare, giocare, nascondersi. Estraven sapeva questo, e quando dopo un giorno o due essi cominciarono a chiedere, discreti e indiretti, con il debito riguardo per lo shifgrethor, perché noi avevamo scelto di passare un inverno a viaggiare sul Ghiaccio di Gobrin, egli rispose subito: