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Tenni per me questa opinione, perché avevo parlato seriamente, quando avevo affermato di preferire la morte durante la fuga, se tutto fosse risolto a una scelta tra una morte e l'altra. Estraven, però, stava ancora esplorando le alternative. Il giorno successivo, che trascorremmo a caricare e a preparare con grande cura la slitta, egli disse:

— Se voi chiamaste la Nave Stellare, quanto tempo impiegherebbe a venire?

— Tra gli otto giorni e il mezzo-mese; dipende dalla sua posizione, nell'orbita solare che percorre, in relazione a Gethen. Potrebbe trovarsi dall'altra parte del sole.

— Non prima?

— Non prima. La propulsione NAFAL*) non può venire usata all'interno di un sistema solare. La nave può discendere solo usando un motore a razzo, che la pone in ogni caso ad almeno otto giorni di distanza. Perché?

Egli tirò una corda, finché non fu perfettamente tesa, e l'annodò, prima di rispondere.

— Stavo considerando se non fosse più saggio cercare di chiedere aiuto. C'è una stazione radio a Turuf.

— È potente?

— Non molto; la grande trasmittente più vicina, dopo di questa, dovrebbe essere a Kuhumey, circa quattrocento miglia a sud da qui.

— Kuhumey è una grande città, non è vero?

— Circa duecentocinquantamila abitanti.

— Dovremmo ottenere l'uso della stazione radio, in qualche modo, poi nasconderci per almeno otto giorni, con il Sarf già avvertito, e alla nostra ricerca… non vedo molte possibilità.

Egli annuì.

Presi dalla tenda un ultimo sacco di kadik, lo infilai nella sua nicchia, nel carico della slitta, e dissi:

— Se avessi chiamato la nave quella notte, a Mishnory… la notte nella quale mi avete detto di farlo… la notte del mio arresto… Ma Obsle aveva il mio ansible; ce l'ha ancora, suppongo.

— Può usarlo?

— No. Neppure per caso, maneggiandolo. La disposizione delle coordinate è estremamente complessa. Ma se soltanto l'avessi usato!

— Se soltanto avessi saputo che la partita era già finita, quel giorno — disse Estraven, e sorrise. Non era un uomo che provasse troppi rimpianti.

— Penso che voi lo sapeste. Ma io non vi ho creduto.

Quando la slitta fu carica, Estraven insisté, perché trascorressimo il resto della giornata senza fare nulla, immagazzinando energia. Rimase nella tenda, scrivendo, su un piccolo libretto d'appunti, nella sua minuta, rapida, verticale scrittura corsiva karhidi; quello che scrisse fu il resoconto che appare sotto la forma del precedente capitolo. Non era riuscito ad aggiornare il suo diario, durante il mese precedente, e questo lo infastidiva e lo rendeva depresso, a suo modo; era estremamente metodico, per quel che riguardava il diario. Scrivere era, penso, sia un obbligo che un legame, per lui, nei confronti della sua famiglia, il Focolare di Estre. Questo lo appresi più tardi, però; insieme all'apprezzamento di quel suo metodo disordinato, apparentemente, di scrittura, di quella sua veloce alternanza di tempi e di passaggi, di quella sua prosa caotica ed elegante a un tempo, che mi apparve poi affascinante; in quel tempo io ancora non sapevo cosa egli stesse scrivendo, e rimasi seduto, a dare grasso agli sci, o senza fare niente del tutto. Fischiettai un motivetto, e mi interruppi a metà. Avevamo soltanto una tenda, e se dovevamo dividerla senza condurci vicendevolmente alla pazzia e all'esasperazione, una certa quantità di autocontrollo, di cortesia, era evidentemente necessaria… Estraven aveva sollevato lo sguardo, nell'udirmi fischiettare, certo, ma non con irritazione. Mi aveva fissato con aria vagamente sognante, invece, e aveva detto:

— Se avessi saputo della vostra Nave, l'anno passato… Perché vi hanno mandato su questo mondo da solo?

— Il Primo Inviato su di un mondo viene sempre da solo. Un solo alieno è una curiosità, due sono un'invasione.

— La vita del Primo Inviato viene tenuta in poco conto.

— No; in realtà, l'Ecumene non tiene in poco conto la vita di nessun uomo. Ne consegue, perciò, che è meglio porre in pericolo una sola vita che due, o venti. Inoltre, è molto costoso, e occupa molto tempo, sapete, mandare persone nei grandi balzi. Comunque, sono stato io a chiedere il lavoro.

— Nel pericolo, onore — disse lui; evidentemente era un proverbio, perché aggiunse, in tono blando, — saremo pieni di onore, quando raggiungeremo Karhide…

Quando egli parlò, mi ritrovai a credere, d'un tratto, che avremmo veramente raggiunto Karhide, attraverso ottocento miglia di montagne, paludi ghiacciate e baie ghiacciate, ottocento miglia completamente desolate, senza riparo, e senza vita, nelle bufere del cuore dell'inverno, nel cuore di un'Era glaciale. Lui sedeva, scrivendo il suo diario con la stessa pazienza incrollabile, con la stessa esasperante accuratezza che avevo visto in un re pazzo, su di un'impalcatura, intento a dare la calcina a una giunzione, e diceva: — Quando raggiungeremo Karhide…

Il suo quando non era nemmeno una nebulosa speranza senza data. Lui intendeva raggiungere Karhide nel quarto giorno del quarto mese dell'inverno, Arhad Anner. Dovevamo partire domani, il tredicesimo giorno del primo mese, Tormenbod Thern. Le nostre razioni, per quanto egli aveva potuto calcolare, sarebbero durate al massimo per tre mesi getheniani, 78 giorni; cosi avremmo percorso dodici miglia al giorno per settanta giorni, e saremmo arrivati in Karhide per l'Arhad Anner. Questo era tutto risolto e stabilito. Non c'era niente da fare, ora, se non dormire, un buon sonno ristoratore.

Partimmo all'alba, usando le «scarpe da neve», sotto una nevicata minuta, senza vento. La superficie, sulle colline, era bessa, morbida e non ancora pressata, quella che gli sciatori terrestri chiamano, all'incirca, neve «vergine». La slitta era carica, e pesantemente; Estraven calcolava che il peso totale da tirare fosse qualcosa di più di 300 libbre. Era un'impresa dura tirare la slitta, nella neve morbida, benché essa fosse maneggevole come una piccola imbarcazione di perfetto disegno: i pattini erano vere e proprie meraviglie, rivestiti con un polimero che riduceva la resistenza praticamente a zero, ma naturalmente questo non serviva a niente, quando l'intera slitta veniva intrappolata in un cumulo di neve troppo acquosa. Su una superficie simile, e salendo e scendendo per pendii e burroni e crepacci, scoprimmo che era meglio far tirare la slitta a uno, mentre l'altro stava dietro a spingere. La neve cadeva, finissima e lenta, e cadde per tutto il giorno, senza interrompersi. Noi ci fermammo due volte, per mangiare qualcosa. In tutta quella grande regione collinosa, in quel territorio coperto dalla soffice coltre bianca, non si udiva alcun suono. Andammo avanti, e improvvisamente, quasi senza che ci fosse un indizio, un preavviso, cadde il crepuscolo. Ci fermammo in una valle molto simile a quella che avevamo lasciato al mattino, un rifugio tra colline gibbose e candide. Ero così stanco, che barcollavo, eppure non riuscivo a credere che il giorno fosse già finito. Avevamo coperto, secondo il misuratore delle slitte, quasi quindici miglia.

Se eravamo riusciti a fare tanto nella neve soffice, a pieno carico, attraverso un territorio impervio, le cui colline e le cui valli scorrevano tutte traversalmente, sulla nostra strada, certamente avremmo potuto fare ancor meglio sul Ghiaccio, con la neve dura, una superficie uniforme, e un carico sempre più leggero. La mia fiducia in Estraven era stata una cosa più forzata che spontanea; ora gli credevo completamente. Saremmo giunti in Karhide entro settanta giorni.

— Avete già viaggiato a questo modo? — gli chiesi.

— In slitta? Spesso.

— Lunghi viaggi?

— Ho percorso più di duecento miglia in Kermlandia, sul Ghiaccio di Kerm, in autunno, anni fa.

La parte più meridionale di Kermlandia, la montuosa penisola all'estremo sud del sub-continente di Karhide, è, come il nord, una distesa di ghiacci eterni. Il genere umano, sul Grande Continente di Gethen, vive in una striscia di terra tra due pareti bianche. Un'ulteriore diminuzione dell'80% dell'irradiazione solare, si calcola, farebbe avvicinare e infine unire le due pareti; non ci sarebbero più uomini, né terra; soltanto ghiaccio.