Falk rimase a guardare il pavimento verdastro dell'altra stanza assorbire gradatamente l'urina fino a che non fu scomparsa del tutto.
I battenti della porta si riaccostarono lentamente, fino a chiudere il vano. Era l'unica via per uscire dalla stanza dove era intrappolato. Si risvegliò dal suo letargo e si precipitò attraverso il varco prima che fosse completamente chiuso. La sala dove erano stati Estrel e quell'uomo era esattamente identica a quella che aveva appena lasciato, forse un po' più piccola e più scura. Nella parete più lontana c'era una porta scorrevole, che si stava chiudendo lentamente. Attraversò a precipizio la stanza, passò per la porta, ed entrò in una terza sala esattamente identica alle precedenti, se non fosse che era un po' più piccola e più scura. Il varco nella parete più lontana si andava ostruendo lentamente, e si precipitò, lo attraversò entrò in un'altra stanza più piccola e scura della precedente e di lì si spinse in un'altra stanza piccola e buia, e poi si trascinò a un piccolo specchio opaco, e cadde, urlando di pazzo terrore alla bianca faccia della luna, attonita.
Si destò sentendosi riposato, pieno di vigore, ma un po' confuso, in un comodo letto in una stanza luminosa, senza finestre. Si sedette. Quasi fosse stato un segnale, gli si avvicinarono due uomini, di corsa, da dietro un tramezzo, uomini enormi, con uno sguardo ottuso, bovino. — Salute a te, Signore Agad! Salute a te, Signore Agad! — dissero uno dopo l'altro e poi: — Seguici, per piacere, seguici, per piacere. — Falk si alzò, nudo come un verme, pronto a combattere (l'unica cosa che era rimasta chiara nella sua mente in quel momento era la lotta e la sconfitta che aveva subito quand'era entrato nel primo salone di quel palazzo) ma essi non si dimostrarono aggressivi. — Seguici, per piacere — ripeterono monotoni, finché egli si decise a seguirli. Lo condussero, sempre nudo, fuori della stanza, gli fecero risalire un lungo corridoio tutto spoglio, poi un salone con le pareti a specchi, quindi una scala che risultò un piano inclinato dipinto in modo che sembrasse scala, poi per un altro corridoio e per altri piani, infine in una spaziosa stanza ammobiliata, con pareti di un verde azzurrino, una delle quali splendente di luce. Uno degli uomini si fermò fuori della stanza; l'altro entrò con Falk. — Ci sono abiti, cibo e da bere. Ora tu, ora mangia, bevi. Ora tu, ora chiedi qualsiasi cosa di cui hai bisogno. Capito? — Lo fissò con insistenza, ma senza particolare interesse.
Sul tavolo c'era una brocca d'acqua, e per prima cosa Falk bevve a sazietà, perché aveva moltissima sete. Osservò la stanza tutt'attorno; era piacevole, arredata con mobilio pesante, di plastica lucida. Le pareti, traslucide, non avevano finestre. Poi studiò la guardia o servitore che fosse, con curiosità. Era un uomo piuttosto grosso, con un viso anonimo, un fucile legato alla cintola. — Qual è la Legge? — chiese impulsivamente.
Obbediente e senza mostrare sorpresa, quel tipo grosso quanto inespressivo rispose: — Non togliere la vita.
— Ma tu hai il fucile.
— Oh, questo fucile rende rigidi, non morti — replicò la guardia, ridendo. La modulazione della voce era del tutto arbitraria, non collegata col significato delle parole e tra queste e la risata ci fu una breve pausa. — Ora mangia, bevi, pulisciti. Ecco dei buoni abiti. Guarda, i vestiti.
— Sei un Cancellato?
— No. Sono Capitano della Guardia del Corpo dei Veri Signori, e sono collegato al calcolatore elettronico numero Otto. Ora mangia, bevi, pulisciti.
— Vorrei che tu uscissi dalla stanza.
Una breve pausa. — Ma certo, benissimo, Signore Agad — rispose l'omaccione e di nuovo rise, come se gli facessero il solletico. Magari sentiva il solletico quando il calcolatore gli parlava nel cervello. Attraverso la parete interna della stanza, Falk scorgeva indistintamente le sagome sgraziate delle due guardie; erano collocate ai due lati della porta, nel corridoio. Trovò la stanza da bagno e si lavò. Sul grande letto morbido che occupava un angolo della stanza c'erano abiti puliti; lunghe palandrane cadenti, con violenti disegni rossi, magenta e viola; li esaminò con disgusto, ma li indossò ugualmente. Il suo logoro fagottino si trovava sul tavolo di plastica lucida profilato d'oro: non sembrava che il contenuto fosse stato asportato, comunque abiti e pistole non erano visibili. Fu portato il pranzo e non gli mancava la fame. Quanto tempo era passato da quando gli si erano chiuse le porte dietro le spalle? Non ne aveva la minima idea, ma lo stomaco gli diceva che era passato un bel po' e si buttò sul cibo. Le vivande erano strane, molto aromatizzate, pasticciate, piene di salse e troppo elaborate, ma mangiò tutto e ne chiese ancora. Non ce n'era e poiché aveva terminato quello che gli era stato chiesto, si diede a esaminare la stanza con maggiore attenzione. Non riusciva più a scorgere le vaghe ombre delle guardie dall'altra parte della parete verde-azzurra semitrasparente; stava già per mettersi a cercarle, quando si fermò di botto. L'apertura della porta, a stento visibile, si stava allargando e dietro a essa un'ombra si muoveva. Si formò un alto ovale; una persona lo attraversò ed entrò nella stanza.
Una ragazza, pensò Falk in un primo momento, poi però si accorse che era un ragazzo di sedici anni o giù di lì, con abiti sciolti come i suoi. Il ragazzo non si avvicinò a Falk, ma si fermò stendendo le mani a palme all'insù, e dalla sua bocca sgorgò un vero fiume di frasi inarticolate.
— Chi sei?
— Orry — disse il giovanetto — Orry! — e altre parole senza senso. Sembrava fragile ed eccitato; gli tremava la voce per l'emozione. Poi si lasciò cadere sulle ginocchia e chinò la testa basso basso, gesto che Falk non aveva mai visto, benché non ci si potesse sbagliare sul suo significato: era il gesto originale, completo, di cui aveva colto qualche rudimentale residuo tra gli Apicultori e i sudditi del Principe del Kansas.
— Parla Galaktika — disse Falk con ardore, scosso e a disagio. — Chi sei?
— Sono Har-Orry-Prech-Ramarren — mormorò il fanciullo.
— Alzati. Tirati su. Non… Mi conosci?
— Prech Ramarren, non ti ricordi di me? Sono Orry, figlio di Har Weden…
— Qual è il mio nome?
Il ragazzo sollevò il capo e Falk lo fissò, fissò i suoi occhi, che guardavano dritto nei suoi. Erano colore dell'ambra, con venature grigie, tranne le grandi pupille scure: e tutto iride, senza bianco apparente, come gli occhi di un gatto o di un cervo, come nessun altro occhio mai visto da Falk, tranne nello specchio la sera prima.
— Il tuo nome è Agad Ramarren — disse il ragazzo scosso dalla paura e sommesso.
— Come fai a saperlo?
— Io… io l'ho sempre saputo, prech Ramarren.
— Sei della mia stirpe? Siamo gente affine?
— Sono il figlio di Har Weden, prech Ramarren! Te lo giuro, sono suo figlio!
Per un momento i suoi occhi grigio-oro si riempirono di lacrime. E Falk stesso aveva sempre reagito alle fatiche con un breve scorrer di lacrime; una volta Buckeye lo aveva rimproverato, perché si era accorto che questa sua caratteristica lo metteva a disagio. Gli aveva spiegato che sembrava una reazione puramente fisiologica, probabilmente razziale.
La confusione, lo sbigottimento, il disorientamento che l'avevano colpito da quando era entrato a Es Toch lo lasciò ora disarmato; non riusciva a fare domande e a formulare giudizi su quest'ultima apparizione. Parte della sua mente diceva: "È esattamente quello che vogliono: ti vogliono confuso al punto da diventare assolutamente credulo". Ormai non sapeva più se Estrel (quella Estrel che conosceva così bene e amava così di cuore) fosse amica sua o degli Shing o semplicemente uno strumento degli Shing; se gli avesse mai detto la verità o se gli avesse mai mentito; se fosse caduta in una trappola assieme a lui o se ve lo avesse attirato. Ricordava una risata; però ricordava anche un abbraccio disperato, un bisbiglio… E allora cosa doveva fare di questo ragazzo, un ragazzo che lo guardava terrorizzato e afflitto, con occhi ultraterreni come i suoi: se lo toccava spariva anche lui in un guizzo luminoso? Rispondeva alle domande con menzogne o con la verità?