EPILOGO
Ma insomma che cosa successe a Mosca dopo che la sera del sabato, al tramonto, Woland abbandonò la capitale, scomparendo col suo seguito dai Monti dei Passeri?
Del fatto che per lungo tempo in tutta la capitale si andò diffondendo il greve rombo delle dicerie piú inverosimili, rapidissimamente arrivate anche nei piú remoti e sperduti luoghi della provincia, non parleremo neppure. Ed è persino stucchevole ripetere queste dicerie.
Chi scrive queste veridiche righe, una volta andando a Feodosija, udí di persona, sul treno, raccontare che a Mosca duemila persone erano uscite da teatro nude nel senso letterale della parola e in quello stato avevano fatto ritorno alle loro case a bordo di tassí.
Le parole bisbigliate «il Maligno…» si sentivano nelle code che si allungavano davanti alle latterie, sui tram, nei negozi, negli appartamenti, nelle cucine, sui treni, sia suburbani sia a lungo percorso, nelle stazioni grandi e piccole, nelle dacie e sulle spiagge.
Le persone piú evolute e piú colte in questi racconti sul maligno che aveva visitato la capitale, non prendevano parte alcuna, naturalmente, e ne ridevano persino e cercavano di ricondurre alla ragione chi li riferiva. Ma un fatto, tuttavia, resta, come si suol dire, un fatto, eluderlo senza spiegazioni non si può in nessun modo: qualcuno era stato nella capitale. Già le braci che erano rimaste del Griboedov e molte altre cose lo confermavano con troppa eloquenza.
Le persone colte fecero proprio il punto di vista della squadra investigativa: aveva lavorato una banda di ipnotizzatori e di ventriloqui, che conosceva alla perfezione la propria arte.
Le misure per la loro cattura, sia a Mosca, sia oltre i suoi confini, furono prese, s’intende, in modo immediato ed energico, ma, con grande rincrescimento generale, non diedero risultati. Colui che si chiamava Woland era scomparso con tutti i suoi sodali e a Mosca non era piú tornato né era comparso in alcun luogo né aveva dato alcun segno di vita. È del tutto naturale che si facesse l’ipotesi che era fuggito all’estero, ma neppure là si era manifestato.
L’inchiesta relativa si protrasse a lungo. Infatti, la faccenda era veramente mostruosa! Per non parlare delle quattro case incendiate e delle centinaia di persone impazzite, c’erano anche dei morti. Di due lo si poteva dire con certezza: Berlioz e quel malaugurato dipendente dell’Ufficio che organizzava le escursioni dei turisti stranieri per Mosca, l’ex barone Meigel. Quei due erano stati uccisi per davvero. Le ossa bruciate del secondo furono trovate nell’appartamento n. 50 sulla Sadovaja dopo che l’incendio fu domato. Sí, c’erano state delle vittime, e queste vittime esigevano un’inchiesta.
Ma ci furono altre vittime, ormai dopo che Woland ebbe lasciato la capitale, e queste vittime furono, per quanto sia triste il dirlo, i gatti neri.
Un centinaio di questi pacifici animali, utili e devoti all’uomo, furono fucilati o massacrati in altri modi in vari punti del paese. Una quindicina di gatti, a volte dall’aspetto fortemente deturpato, furono consegnati ai reparti di polizia in varie città. Ad esempio, ad Armavir una di queste bestie di nulla colpevoli fu condotta da un signore alla polizia con le zampe anteriori legate.
Il signore aveva sorpreso quel gatto, dopo un agguato, nel preciso istante in cui l’animale con aria ladresca (che fare, se i gatti hanno quest’aria? Non è perché siano viziosi, ma perché temono che qualcuna delle creature piú forti di loro — i cani o gli uomini — arrechi loro nocumento e offesa. E l’una cosa e l’altra è facile assai, ma in questo non c’è merito alcuno, ve lo assicuro, non c’è merito!) dunque, con aria ladresca il gatto si accingeva a precipitarsi, chi sa perché, tra le erbacce.
Buttatosi addosso al gatto e strappandosi dal collo la cravatta per legarlo, il signore borbottava con fare velenoso e torvo:
— Aha! E dunque venuto a trovarci ad Armavir adesso signor ipnotizzatore? Ma qui non ci ha mica fatto paura. E non faccia finta di essere muto! Lo abbiamo già capito il bel tomo che è lei!
Il signore condusse il gatto alla polizia, trascinando la povera bestia per le zampe anteriori, avvinte dalla cravatta verde, e cercando di far sí che, a furia di calci leggeri, il gatto camminasse proprio sulle zampe posteriori.
— E lei, — urlava il signore, accompagnato dai ragazzini che fischiavano, — la pianti, la pianti di fare lo stupido! Non ce la farà, questa volta! Abbia la compiacenza di camminare come tutti!
Il gatto nero si limitava a stravolgere i suoi occhi da martire. Privo per natura del dono della parola, non poteva giustificarsi di nulla. Della sua salvezza la povera bestia fu debitrice in primo luogo alla polizia, nonché alla sua padrona, una rispettabile vecchia vedova. Non appena il gatto fu consegnato alla polizia, là constatarono che il signore puzzava terribilmente di alcool, per il che sulle sue deposizioni si ebbero subito dei dubbi. Intanto la vecchina quando seppe dai vicini che il suo gatto era stato acciuffato, si precipitò dalla polizia e arrivò in tempo. Essa diede le referenze piú lusinghiere sul gatto, spiegò che lo conosceva da cinque anni, da quando era un micino, garantiva di lui come di se stessa e dimostrò che non aveva mai combinato guai e non era mai andato a Mosca. Era nato ad Armavir e in esso era cresciuto e aveva imparato a prendere i topi.
Il gatto fu slegato e riconsegnato alla proprietaria, dopo una ben amara esperienza, però: egli aveva conosciuto di persona che cosa siano l’errore e la calunnia.
Oltre ai gatti, ebbero qualche piccola noia anche certe persone. Vi furono alcuni arresti. Tra gli altri furono trattenuti per accertamenti: a Leningrado i signori Vol’man e Vol’per, a Saratov, Kiev e Char’kov tre Volodin, a Kazan’ Voloch, e a Penza — e qui non si sa assolutamente il perché — il libero docente in chimica Vetčinkevič. Vero è che si trattava di un bruno, di carnagione assai olivastra e di enorme statura.
Furono presi, inoltre, in diversi posti nove Korovin, quattro Korovkin e due Karavaev.
Un signore fu fatto scendere dal treno per Sebastopoli e lasciato, legato, alla stazione di Belgorod. Questo signore aveva avuto la bella idea di divertire i compagni di viaggio facendo giochi di prestigio con le carte.
A Jaroslavl’, proprio all’ora di pranzo, nel ristorante si presentò un signore con un fornello a petrolio in mano che egli aveva appena ritirato dal negozio di riparazioni. I due uscieri, non appena lo videro, lasciarono i loro posti nello spogliatoio e scapparono, e dietro a loro scapparono dal ristorante tutti gli avventori e il personale di servizio. E alla cassiera scomparve misteriosamente l’intero incasso.
Ci furono ancora molti fatti, tutti non si può ricordarli. C’era un gran fermento di animi.
Ancora e ancora una volta si deve rendere giustizia alla squadra investigativa. Tutto fu fatto non solo per acciuffare i delinquenti, ma anche per spiegare tutto quello che avevano combinato. E tutto fu spiegato, e queste spiegazioni non possono non essere riconosciute sensate e inconfutabili.
I rappresentanti della squadra investigativa e alcuni esperti psichiatri stabilirono che i membri della banda criminosa o forse uno solo di essi (qui il sospetto cadde soprattutto su Korov’ev) erano ipnotizzatori d’una forza mai vista, capaci di mostrarsi non nel luogo dove si trovavano, ma in posizioni presunte, spostate. Inoltre essi riuscivano liberamente a suggestionare quelli che s’imbattevano in loro, facendo credere che alcune cose o persone si trovavano là dove, in realtà, non c’erano e, al contrario, allontanavano dal campo visivo le cose e le persone che, in effetti, in quel campo visivo erano presenti.
Alla luce di queste spiegazioni ogni cosa riusciva comprensibile, persino l’invulnerabilità del gatto preso a colpi di pistola nell’appartamento n. 50 durante il tentativo di metterlo agli arresti, invulnerabilità apparentemente inspiegabile che piú di tutto aveva turbato la cittadinanza.