I cavalieri fermarono i loro cavalli.
— Il suo romanzo è stato letto, — prese a dire Woland, voltandosi verso il Maestro, — ed è stato detto soltanto che, purtroppo, non è finito. Ecco, ho voluto mostrarle il suo eroe. Sono quasi due millenni che sta qui, su questo pianoro, e dorme, ma quando viene la luna piena, come vede, lo strazia l’insonnia. Essa tormenta non solo lui, ma anche il suo guardiano fedele, il cane. Se è vero che la viltà è il vizio piú grave, il cane, forse, non ne porta la colpa. L’unica cosa che questo animale coraggioso temesse, era la tempesta. Ma chi ama, deve dividere la sorte di colui che egli ama.
— Che cosa dice? — chiese Margherita, e il suo volto completamente tranquillo si appannò d’un velo di compassione.
— Dice, — rispose Woland, — una sola cosa. Dice che anche quando c’è la luna, per lui non c’è pace e che brutto è il suo mestiere. Cosí dice sempre, quando non dorme, e quando dorme, vede una sola cosa: una strada illuminata dalla luna, e vuole percorrerla e parlare con l’arrestato Hanozri perché, come egli afferma, non ha finito di dire qualcosa allora, tanto tempo fa, il giorno quattordici del mese primaverile di Nisan. Ma, ahimè, per questa strada non gli riesce di incamminarsi, e da lui non viene nessuno. Allora, che fare? gli tocca parlare con se stesso. Ma, è pure necessaria un po’ di varietà, e al suo discorso sulla luna egli sovente aggiunge che piú di ogni altra cosa al mondo odia la sua immortalità e la gloria inaudita. Afferma che muterebbe volentieri la sua sorte col vagabondo straccione Levi Matteo.
— Dodicimila lune per una sola luna d’un tempo, non è molto? — chiese Margherita.
— Si ripete la storia di Frida? — disse Woland. — Ma Margherita, qui non devi inquietarti. Tutto sarà giusto, su questo è costruito il mondo.
— Liberatelo! — gridò a un tratto con voce penetrante Margherita cosí come aveva gridato una volta, quando era una strega, e questo grido fece cadere una pietra sulle montagne, ed essa volò per le balze nel precipizio, riempiendo i monti di fragore. Ma Margherita non avrebbe potuto dire se quello fosse il fragore di un masso caduto o il fragore di una risata satanica. Comunque, Woland rideva, sogguardando Margherita, e diceva:
— Non bisogna gridare sulle montagne, tanto lui è abituato alle valanghe e questo non lo allarma. Lei non deve intercedere per lui, Margherita, perché per lui ha già intercesso la persona con la quale egli brama tanto di parlare — . Qui Woland si voltò di nuovo verso il Maestro e disse:
— Ebbene, ora lei può finire il suo romanzo con una sola frase!
Il Maestro sembrava che già aspettasse queste parole, mentre stava immobile e guardava il procuratore seduto. Egli atteggiò le mani a portavoce e gridò in modo che l’eco rimbalzò pei monti deserti e brulli:
— Sei libero! Sei libero! Egli ti aspetta!
Le montagne trasformarono la voce del Maestro in un tuono, e questo tuono le distrusse. Le maledette mura rocciose caddero. Restò soltanto il pianoro con la scranna di pietra. Sul nero abisso, nel quale erano finite le mura, s’accese una città immensa, con gli idoli lucenti che regnavano su essa, al di sopra di un giardino rigogliosamente cresciuto nel corso di molte migliaia di lune. Fino al limitare di questo giardino si protese la strada illuminata dalla luna tanto attesa dal procuratore, e per primo lungo di essa si gettò a correre il cane dalle orecchie aguzze. L’uomo col mantello bianco foderato di un rosso sanguigno si alzò dalla scranna e gridò qualcosa con voce rauca, esausta. Non si poteva capire se stesse piangendo o ridendo e che cosa gridasse. Si vedeva soltanto che dietro al suo fedele guardiano lungo la strada illuminata dalla luna correva a precipizio anche lui.
— Devo andare là, seguirlo? — chiese inquieto il Maestro, toccando le briglia.
— No, — rispose Woland. — Perché seguire le orme di ciò che ormai è finito?
— Allora là? — chiese il Maestro, si voltò e indicò con la mano là dove, alle spalle, si era delineata la città da poco abbandonata con le torri di marzapane dei monasteri e col sole in mille pezzi nei vetri.
— Neppure, — rispose Woland, e la sua voce s’ispessí e colò sopra le rocce. — Romantico Maestro! Colui che tanto brama di vedere l’eroe da lei inventato, or ora messo in libertà da lei stesso, ha letto il suo romanzo — . Qui Woland si volse verso Margherita. — Margherita Nikolaevna! Non si può non credere che lei abbia cercato di inventare il futuro migliore per il Maestro, ma, veramente, ciò che io vi propongo, e ciò che Jeshua ha chiesto per voi, è ancora migliore! Lasciateli soli loro due, — disse Woland, piegandosi dalla sua sella verso la sella del Maestro e facendo un cenno verso il procuratore che si era allontanato, — non disturbiamoli. E forse, su qualcosa finiranno per mettersi d’accordo — . A questo punto Woland fece un gesto con la mano in direzione di Jerushalajim e quella si spense.
— E anche là, — Woland indicò ciò che avevano lasciato alle spalle, — che farà mai in quell’interrato? — Qui si smorzò il sole frantumato nei vetri. — Perché? — proseguí Woland convincente e dolce. — Oh, tre volte romantico Maestro, possibile che lei non voglia di giorno passeggiare con la sua compagna sotto i ciliegi che cominciano a fiorire, e di sera ascoltare la musica di Schubert? Possibile che non provi piacere a scrivere alla luce delle candele con una penna d’oca? Possibile che lei non voglia, come Faust, starsene su una storta nella speranza che le riesca di modellare un nuovo homunculus? Là, là! Là vi aspetta una casa e un vecchio servo, le candele sono già accese, ma presto si spegneranno perché subito vi verrà incontro l’alba. Per questa strada, Maestro, per questa strada! Addio, per me è ora!
— Addio! — con un sol grido risposero a Woland Margherita e il Maestro. Allora il nero Woland, senza badare a strada alcuna, si gettò nel precipizio e dietro di lui, tumultuando, si slanciò il suo seguito. Intorno non c’erano piú né rocce, né il pianoro, né la strada illuminata dalla luna, né Jerushalajim. Erano scomparsi anche i neri cavalli.
Il Maestro e Margherita videro l’alba promessa. Essa cominciò subito, immediatamente dopo la luna di mezzanotte. Il Maestro camminava con la sua compagna nello splendore dei primi raggi mattutini attraverso un muschioso ponticello di pietra. Lo attraversarono. Il ruscello restò alle spalle dei fedeli amanti, ed essi andarono lungo una strada sabbiosa.
— Ascolta la quiete, — diceva Margherita al Maestro, e la sabbia frusciava sotto i suoi piedi nudi, — ascolta e godi ciò che non ti hanno mai concesso in vita: il silenzio. Guarda, ecco là davanti la tua casa eterna, che ti è stata data per ricompensa. Già vedo la trifora e la vite che s’attorce e s’alza fino al tetto. Ecco la tua casa, la tua casa eterna. So che alla sera ti verranno a trovare coloro che tu ami, che ti interessano e che non ti inquieteranno. Suoneranno per te, canteranno per te, vedrai che luce ci sarà nella camera quando saranno accese le candele. Ti addormenterai, col tuo berretto consunto ed eterno, ti addormenterai col sorriso sulle labbra. Il sonno ti rinvigorirà e saggi saranno i tuoi pensieri. E mandarmi via ormai non potrai. Il tuo sonno lo proteggerò io.
Cosí parlava Margherita, seguendo il Maestro verso la loro casa eterna, e al Maestro parve che le parole di Margherita fluissero come fluiva e bisbigliava il ruscello lasciato alle spalle, e la memoria del Maestro, l’inquieta e martoriata memoria del Maestro cominciò a spegnersi. Qualcuno lo lasciava libero, come poco prima egli aveva lasciato libero l’eroe da lui creato. Questo eroe era scomparso, era scomparso irrevocabilmente, perdonato nella notte tra il sabato e la domenica, il figlio del re astrologo, il crudele quinto procuratore della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato.