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«Useremo allora il motore quantico, probabilmente per l’ultima volta. La Magellano, che è nata nello spazio e nello spazio è sempre rimasta, discenderà infine sulla superficie di un pianeta.

«Dopo di che, per circa quindici minuti al giorno, il motore quantico entrerà in funzione a quel regime che le strutture della nave — e lo zoccolo di roccia sul quale la nave si sarà posata — potranno reggere. Solo quando avremo fatto i primi test sapremo quanto tempo esattamente durerà questa fase dell’operazione; forse si renderà necessario spostare la nave se il luogo scelto per l’atterraggio dovesse dimostrarsi geologicamente instabile.

«Comunque, a una prima approssimazione il motore quantico dovrà restare in funzione per una trentina d’anni, rallentando gradualmente il moto di rivoluzione del pianeta così che esso possa avvicinarsi al Sole quel tanto da poterci offrire un clima temperato. Dovremo quindi impiegare il motore quantico per un altro quarto di secolo al fine di rendere l’orbita più regolare. Ma Sagan Due sarà allora già abitabile, per quanto gli inverni resteranno molto rigidi fin quando non si sarà raggiunta l’orbita definitiva.

«Disporremo allora di un pianeta vergine, più grande della Terra, ricoperto dalle acque per il quaranta per cento circa e con una temperatura media di venticinque gradi centigradi. L’atmosfera avrà un contenuto di ossigeno inferiore di un trenta per cento a quella della Terra, ma la percentuale continuerà a crescere. Allora sarà il momento di risvegliare i novecentomila ibernati che sono a bordo della nave, e di offrire loro un nuovo mondo.

«Questo è il nostro piano, a meno che qualche avvenimento imprevisto, o qualche nuova scoperta, non ci costringa ad abbandonarlo. E al peggio…»

Qui la Varley s’interruppe per un attimo, e quindi sorrise amaramente.

«No, qualsiasi cosa accada, voi non ci rivedrete mai più. Se Sagan Due si rivelerà inadatto, c’è un altro pianeta possibile, distante una trentina di anni luce, che potrebbe essere anche migliore.

«Forse alla fine finiremo per colonizzarli entrambi. Ma ciò lo deciderà il futuro.»

Ci volle qualche tempo prima che iniziasse la discussione; gli accademici per la maggior parte erano rimasti come storditi, per quanto l’applauso fosse stato spontaneo. Fu il presidente, che per lunga esperienza aveva già preparato alcune domande, a cominciare.

«Un punto marginale, dottoressa Varley… Possiamo sapere l’origine del nome Sagan Due?»

«Certo. Il pianeta è stato così chiamato in onore di uno scrittore di romanzi scientifici vissuto all’inizio del Terzo Millennio.»

La domanda ruppe il ghiaccio, proprio come aveva previsto il presidente.

«Dottoressa, lei ha detto che Sagan Due ha almeno un satellite. Che accadrà a questo satellite, quando cambierete l’orbita del pianeta?»

«Nulla, salvo qualche lieve perturbazione orbitale. Seguirà il suo primario.»

«Se le direttive del… che anno era? Il 3500?»

«Il 3505.»

«… fossero state approvate prima, noi saremmo qui adesso? Voglio dire, Thalassa sarebbe stato un pianeta proibito?»

«Questa è una buona domanda, e noi stessi ce la siamo posta. La missione del 2751, quella che ha visto la vostra Nave Madre atterrare sull’Isola Meridionale, avrebbe senza dubbio violato le direttive.

Fortunatamente, il problema non si è posto. Giacché qui non esistono animali terrestri, il principio della non interferenza non è stato comunque violato.»

«A me tutto questo pare assai congetturale» disse uno dei membri più giovani, con palese divertimento dei più anziani. «Se la presenza di ossigeno comporta la vita, come si può essere certi che sia vero anche il contrario; È possibile ipotizzare ogni sorta di esseri intelligenti capaci di vivere su pianeti privi di ossigeno e privi anche di un’atmosfera. Se il successore dell’uomo sul piano dell’evoluzione sarà il robot come molti filosofi hanno ipotizzato, è presumibile che delle macchine preferiscano un ambiente privo di atmosfera, a evitare il rischio della ruggine. Sapete che età abbia Sagan Due? Il pianeta potrebbe aver già superato la sua fase biologica imperniata sull’ossigeno, e forse voi rischiate di trovarvi una civiltà di macchine e di robot.»

Per l’assemblea corse un mormorio di dissenso e qualcuno borbottò «Fantascienza!» in tono di grande disgusto. La Varley attese che tornasse il silenzio e quindi rispose brevemente: «È un’ipotesi, questa, che non ci ha certo fatto perdere il sonno. E se davvero c’imbattessimo in una civiltà robotica, il principio della non interferenza non credo che si porrebbe.

Personalmente, mi preoccuperebbe molto di più ciò che loro potrebbero fare a noi, che non il contrario!»

Un accademico molto anziano — forse la persona più anziana che avesse visto su Thalassa, pensò la Varley — si alzò a fatica dal suo seggio in fondo alla sala. Il presidente scrisse rapidamente un appunto su un foglietto e glielo passò: «Prof. Derek Winslade, età 115, G.V. di Scienze Terr., storico». La dottoressa per qualche secondo rimase perplessa di fronte alla sigla G.V. prima che con una misteriosa intuizione capisse che stava per «Grande Vecchio».

Ed era molto significativo, pensò la Varley, che il decano della scienza thalassana fosse uno storico. Nei settecento anni della loro storia, le Tre Isole avevano prodotto solo un pugno di pensatori originali.

Ma ciò non andava necessariamente a loro demerito. I Thalassani avevano dovuto edificare un’intera civiltà partendo da zero; e non vi erano state grandi opportunità, né incentivi, per le ricerche che non avessero un’immediata applicazione pratica. Vi era poi un problema più serio ed elusivo: quello della popolazione. In nessuna disciplina scientifica vi era mai stato su Thalassa un numero di ricercatori sufficiente per raggiungere la «massa critica», e cioè quel numero minimo di menti attive nello stesso campo necessario per far avanzare la ricerca in qualche nuovo settore del sapere. Solo i campi della matematica e della musica conoscono qualche rara eccezione a questa regola: qui i geni solitari — un Ramanujan o un Mozart — possono sorgere dal nulla e navigare da soli per i mari sconosciuti del pensiero. Anche la scienza thalassana conosceva almeno un genio solitario: Francis Zoltan (214–242), il cui nome era ancora riverito cinquecento anni dopo — per quanto la Varley nutrisse qualche dubbio sulla portata dei suoi conseguimenti. Questo perché nessuno, o così pareva, aveva mai capito a fondo le sue scoperte nel campo dei numeri ipertransfiniti; e tanto meno nessuno aveva portato avanti la ricerca nella direzione aperta da Zoltan — ed è proprio la fertilità degli sviluppi che conferma le vere grandi scoperte. Anche cinquecento anni dopo, la famosa Ultima Ipotesi di Zoltan ancora non risultava né confermata né confutata.

La dottoressa Varley aveva l’impressione — che si era ben guardata dal menzionare ai suoi amici thalassani per una questione di tatto — che la tragica morte di Zoltan avesse molto contribuito a esagerare la reputazione investendo la sua figura di una serie di speranze e di aspettative. La scomparsa del matematico thalassano, avvenuta in mare al largo dell’Isola Settentrionale, aveva ispirato innumerevoli miti romantici e teorie strampalate — una delusione amorosa, qualche rivale geloso, la sua incapacità di scoprire una dimostrazione inoppugnabile, il terrore del transfinito — nessuna delle quali possedeva il minimo fondamento reale.

Ma tutte avevano dato lustro all’immagine del massimo genio di Thalassa, la cui vita era stata troncata all’inizio della sua maturità di studioso.

Ma cosa stava dicendo l’anziano professore? Ahimè, c’era sempre qualcuno che, durante la discussione, sollevava questioni che non c’entravano nulla o coglieva l’opportunità di divulgare qualche teoria che gli era particolarmente cara. La dottoressa Varley aveva molta esperienza e sapeva come mettere a posto questi importuni, magari facendo ridere il pubblico a loro spese. Però in questo caso si trovava di fronte a un Grande Vecchio, a casa sua e circondato da colleghi che lo rispettavano, e quindi avrebbe dovuto portare pazienza.