Comunque fosse, gli avvenimenti lasciarono un segno su quella giornata. Una giornata di vasellame rotto, una giornata in cui la gente si pestava i piedi e si irritava. La madre di Esk fece cadere una brocca che era appartenuta a sua nonna e nella soffitta un’intera cassetta di mele andò a male. Nella fucina la fornace si fece di cattivo umore e si rifiutò di tirare. Jaims, il figlio maggiore, scivolò su una lastra di ghiaccio per la strada e si fece male a un braccio. Il gatto bianco (o forse un suo discendente, visto che i gatti conducevano una loro propria vita complicata nel fienile adiacente alla fucina) si arrampicò su per il camino del retrocucina e rifiutò di scendere. Perfino il cielo si fece opprimente come un vecchio materasso e l’aria soffocante, malgrado la neve.

I nervi scossi, la noia, il malumore facevano vibrare l’aria come all’annuncio di un temporale.

— Bene! Basta così! — gridò la madre di Esk. — Cern, tu, con Gulta ed Esk potete andare a vedere come sta la Nonnina e… dov’è Esk?

I due figli più piccoli smisero di litigare senza troppa convinzione e vennero fuori da sotto il tavolo.

— È andata nell’orto — annunciò Gulta. — Ancora.

— Allora va e riportala qui, e poi filate.

— Ma fa freddo!

— Sta per nevicare di nuovo!

— Sono solo meno di due chilometri e la strada è abbastanza sgombra. E chi ci teneva tanto ad andare fuori quando abbiamo avuto la prima nevicata? Sparite e non tornate finché non sarete di umore migliore.

Trovarono Esk appollaiata su una biforcazione del grosso melo. Ai ragazzini l’albero non piaceva molto. Tanto per cominciare, era talmente rivestito dal vischio da sembrare verdeggiante anche a metà inverno; e i suoi frutti erano piccoli e così aspri da darvi i crampi di stomaco per poi marcire dalla sera alla mattina; inoltre, benché sembrasse facile arrampicarcisi, accadeva spesso che i suoi rami si rompessero e vi facessero perdere l’equilibrio nei momenti meno opportuni. Una volta Cern aveva giurato che un ramo si era contorto apposta per farlo cadere. Ma l’albero tollerava Esk, che era solita sedercisi se era irritata o stufa o aveva semplicemente voglia di starsene da sola. I ragazzini sentivano che il diritto di ogni fratello di tormentare la propria sorella finiva ai piedi del tronco. Così le lanciarono una palla di neve. Che non la colpì.

— Andiamo a trovare la vecchia Weatherwax.

— Ma tu non sei obbligata a venire.

— Perché non faresti altro che farci rallentare e probabilmente ti metteresti a piangere.

Esk li guardò con aria solenne. Era una bambina che non piangeva molto, tanto sembrava che non servisse un granché.

— Se non volete che venga, allora verrò — disse. Tra fratelli, un discorso del genere passa per logica.

— Oh, noi vogliamo che tu venga — si affrettò a dichiarare Gulta.

— Mi fa piacere saperlo — ribatté Esk, che si lasciò cadere su un mucchio di neve.

I bambini avevano un canestro contenente delle salsicce affumicate, uova sode e, dato che la loro madre era prudente quanto generosa, un grosso barattolo di marmellata di pesche che a nessuno della famiglia piaceva molto. Lei, però, continuava a farla ogni anno quando le piccole pesche selvatiche erano mature.

Gli abitanti di Cattivo Somaro avevano imparato a convivere con i lunghi inverni e le strade che portavano fuori del villaggio erano fiancheggiate da assi per ridurre l’ammucchiarsi della neve e, quel che più importa, per impedire ai viandanti di perdersi. Se erano gente del posto, la cosa non era così grave, perché molte generazioni prima un anonimo genio del consiglio del villaggio aveva avuto l’idea di fare delle tacche ogni dieci alberi della foresta lì intorno, per una distanza di quasi quattro chilometri. Ci era voluto un bel po’ di tempo e ritagliare le tacche era sempre il compito di ogni uomo nel suo tempo libero. Ma negli inverni durante i quali un uomo poteva perdersi nella tormenta a poche centinaia di metri da casa sua, più di una vita era stata salvata dalla traccia delle tacche trovate al tatto sotto la neve.

Nevicava di nuovo quando i tre ragazzini lasciarono la strada e s’inerpicarono su per il sentiero dove, d’estate, la casa della strega era seminascosta tra cespugli di lampone e una profusione di magica digitale.

— Nessuna impronta — osservò Cern.

— Eccetto che per le volpi — disse Gulta. — Dicono che lei si può tramutare in una volpe. O altro. Perfino un uccello. Qualunque cosa. È così che lei sa sempre che cosa succede.

Si guardarono intorno con cautela. Una magra cornacchia in effetti li stava osservando poco lontano dal tronco morto di un albero.

— Dicono che nei pressi di Crack Peak c’è un’intera famiglia che può trasformarsi in lupi — aggiunse Gulta, uno a cui non piaceva lasciare in sospeso un soggetto promettente — perché una notte qualcuno ha sparato a un lupo e il giorno dopo la loro zietta zoppicava per una ferita di freccia nella gamba, e…

— Io non ci credo che le persone possano trasformarsi in animali — disse lentamente Esk.

— Ah sì, signorina Intelligentona?

— La Nonnina è grande e grossa. Se si trasformasse in una volpe, che accadrebbe di tutti i pezzi che avanzerebbero?

— Lei li farebbe semplicemente sparire con la magia — ribatté Cern.

— Io non penso che la magia funzioni in questo modo — obiettò Esk. — Non si possono fare accadere le cose così, c’è una specie di… una cosa come l’altalena. Se si spinge giù un’estremità, l’altra va su… — Lasciò la frase in sospeso.

I fratelli le lanciarono un’occhiata.

— Non ce la vedo la Nonnina su un’altalena — disse Gulta. Cern ridacchiò.

— No, voglio dire, ogni volta che accade una cosa, un’altra deve accadere pure… credo — terminò incerta la bambina, evitando un mucchio di neve insolitamente profondo. — Soltanto nella… direzione opposta.

— Questa è una stupidaggine — la rimbeccò Gulta — perché, guarda. Ti ricordi quando l’estate scorsa è venuta quella fiera e ci lavorava un mago che ha fatto apparire dal nulla tutti quegli uccelli e altri oggetti? Voglio dire, è successo così, lui ha detto solo certe parole e ha agitato le mani, ed è successo semplicemente così. Non c’era nessuna altalena.

— C’erano i seggiolini volanti — disse Cern. — E uno stand dove bisognava gettare delle cose alle cose per vincere delle cose.

— E tu, Gul, non hai colpito niente.

— Nemmeno tu. Hai detto che gli oggetti erano incollati agli oggetti così che era impossibile farli cadere, hai detto…

Sembravano due cuccioli. Esk ascoltava distratta la loro conversazione. "Io lo so ciò che voglio dire" pensava la bambina. "La magia è facile. Basta trovare il posto dove tutto si tiene in equilibrio e spingere. Chiunque potrebbe farlo. In questo non c’è niente di magico. Tutte quelle parole ridicole e quell’agitare le mani è semplicemente… è soltanto per…"

Si fermò, sorpresa di se stessa. Sapeva ciò che intendeva. L’idea era proprio lì nella sua mente. Ma non sapeva come tradurla in parole, nemmeno a se stessa.

Scoprire delle parole nella propria testa e non sapere esprimerle, era una sensazione orribile. Era…

— Dai, vieni, o staremo qui tutto il giorno.

Lei scosse la testa e si affrettò a seguire i fratelli.

Il cottage della strega consisteva di tante parti aggiunte e tante tettoie che era difficile vedere come doveva essere la costruzione originale. O se mai ce n’era stata una. D’estate era circondato da folte aiuole di quelle che la Nonnina chiamava genericamente "le Erbe": piante strane, fronzute o basse o arruffate, dai fiori curiosi o frutti dai colori vivaci o baccelli sgradevolmente rigonfi. Solo la Nonnina sapeva a che cosa servissero e i colombi selvatici tanto affamati da beccarli, in genere ne emergevano squittendo e urtando qua e là, (oppure, qualche volta, non ne venivano più fuori).

Adesso tutto era sepolto sotto la neve. Una banderuola dimenticata sbatteva contro l’asta. La Nonnina non approvava il volo, ma alcune delle sue amiche usavano ancora le scope.