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Il capo, col fiato mozzo, guardò istupidito Arren e il mago e il drago.

Ma non disse nulla. E poi il drago parlò.

Soltanto Ged, al quale stava parlando, poteva comprenderlo, perché i draghi usano soltanto la Vecchia Lingua, che è la loro favella. La voce era bassa e sibilante, quasi come quella di un gatto quando grida sommesso il proprio furore, ma era immane, e aveva una sua terribile musicalità.

Chiunque udiva quella voce s’immobilizzava per ascoltare.

Il mago rispose, brevemente, e il drago parlò di nuovo, restando sospeso sopra di lui, con le ali che si muovevano lievemente: sembrava, pensò Arren, una libellula librata nell’aria.

Poi il mago rispose con una sola parola: «Memeas», verrò; e alzò il bastone di legno di tasso. Le fauci del drago si aprirono, e ne uscì una voluta di fumo in un lungo arabesco. Le ali dorate sbatterono come un tuono, creando un gran vento che odorava di bruciato; e il drago volteggiò e volò immenso verso il nord.

C’era silenzio, sulle zattere, un silenzio rotto solo dal pigolante piagnucolio dei bambini e dalle voci delle donne che li consolavano. Gli uomini risalirono dal mare con espressioni vergognose; e le torce dimenticate bruciavano nei primi raggi del sole.

Il mago si rivolse ad Arren. Aveva sul volto una luce che poteva essere gioia o collera, ma parlò quietamente: — Adesso dobbiamo andare, ragazzo. Saluta i tuoi amici e vieni. — Si voltò per ringraziare il capo del popolo delle zattere e dirgli addio, e poi passarono dalla grande zattera, attraverso altre tre, poiché erano ancora accostate per la danza, finché giunsero a quella cui stava legata la Vistacuta. La barca aveva seguito così la città di zattere nella lunga e lenta deriva verso il sud, ondeggiando vuota; ma i Figli del Mare Aperto avevano riempito il barile con la preziosa acqua piovana e l’avevano rifornita di provviste per onorare gli ospiti, perché molti di loro credevano che Sparviero fosse uno dei Grandi e che avesse assunto la forma di uomo anziché quella di balena. Quando Arren lo raggiunse, aveva già alzato la vela. Arren sciolse l’ormeggio e balzò nella barca, e in quell’istante la Vistacuta virò, scostandosi dalla zattera, e la sua vela si tese come per un gran vento, sebbene spirasse soltanto la brezza dell’aurora. Virò e corse verso nord, sulle tracce del drago, leggera come una foglia portata dal vento.

Quando Arren si voltò indietro, vide la città di zattere come una manciata di fuscelli e di schegge di legno che galleggiavano minuscoli sull’acqua: le capanne e i pali reggitorcia. Ben presto anche quelli si persero nei barbagli della luce del sole sulle onde. La Vistacuta correva veloce. Quando la sua prua mordeva le acque s’innalzava un finissimo pulviscolo cristallino, e il vento della sua corsa ributtava all’indietro i capelli di Arren e lo costringeva a socchiudere gli occhi.

Nessun vento del mondo avrebbe potuto far navigare così rapida la piccola imbarcazione, se non quello della tempesta; ma in quel caso sarebbe affondata tra le onde del fortunale. Quello non era un vento del mondo: erano la parola e il potere del mago, a farla volare così.

Sparviero rimase a lungo ritto accanto all’albero, con gli occhi fissi. Infine si sedette come al solito accanto al timone, e vi appoggiò una mano, e guardò Arren.

—  Era Orm Embar — disse, — il Drago di Selidor, parente del grande Orm che uccise Erreth-Akbe e fu ucciso da lui.

—  Era a caccia, mio signore? — chiese Arren; perché non sapeva se il mago avesse parlato al drago con parole di benvenuto oppure di minaccia.

—  Dava la caccia a me. Quello che i draghi cercano, lo trovano. È venuto a chiedere il mio aiuto. — Sparviero rise, brevemente. — Ed è una cosa che non crederei, se qualcuno me lo dicesse: un drago che si rivolge a un uomo per chiedere aiuto. E tra tutti, proprio quello! Non è il più vecchio, sebbene sia vecchissimo, ma è il più possente della sua specie. Non nasconde il proprio nome, come devono fare uomini e draghi. Non ha paura che qualcuno possa acquisire potere su di lui. E non inganna, secondo la tradizione della sua razza. Molto tempo fa, su Selidor, mi lasciò vivere, e mi rivelò una grande verità: mi disse come si poteva ritrovare la Runa dei Re. È a lui che devo l’Anello di Erreth-Akbe. Ma non avrei mai pensato di ripagare un simile debito, e a un simile creditore!

—  Cosa ti ha chiesto?

—  Di mostrarmi la via che cerco — rispose il mago, incupendosi. Poi, dopo una pausa: — Ha detto: «A occidente c’è un altro Signore dei Draghi: opera la distruzione tra noi, e il suo potere è più grande del nostro». Io ho chiesto: «Anche del tuo, Orm Embar?». E lui ha detto: «Anche del mio. Ho bisogno di te: seguimi in fretta». E io ho ubbidito al suo comando.

—  Non sai altro?

—  Presto saprò di più.

Arren arrotolò il cavo d’ormeggio, lo ripose, e sbrigò le altre piccole mansioni di bordo, ma la tensione dell’eccitamento cantava dentro di lui come la corda tesa di un arco; e quando infine lui parlò, la tensione cantò anche nella sua voce. — Questa — disse, — è una guida migliore delle altre!

Sparviero lo guardò e rise. — Sì. Questa volta non ci smarriremo, credo.

Così i due incominciarono la grande corsa attraverso l’oceano. Erano mille miglia e più, dai mari inesplorati del popolo delle zattere fino all’isola di Selidor, che è la più occidentale di tutte le terre di Earthsea. Uno dopo l’altro, i giorni sorgevano splendenti dal sereno orizzonte e discendevano nel rosseggiante occaso; e sotto l’arco d’oro del sole e l’argenteo volteggiare delle stelle la barca correva verso nord, tutta sola sul mare.

Talvolta i nembi temporaleschi dell’estate si ammassavano in lontananza, gettando ombre purpuree sull’orizzonte: allora Arren restava a guardare mentre il mago si alzava e con la voce e la mano chiamava quelle nubi perché venissero verso di loro e lasciassero cadere la pioggia sulla barca. Il lampo guizzava tra le nuvole, e il tuono muggiva. E il mago rimaneva ritto, con la mano levata, fino a quando la pioggia cadeva su di lui e su Arren e nei recipienti che avevano preparato, e nella barca e sul mare, appiattendo le onde con la sua violenza. Il mago e Arren sorridevano di piacere perché avevano cibo a sufficienza, se non in abbondanza, ma avevano bisogno d’acqua dolce. E il furioso splendore del temporale che ubbidiva al mago li deliziava.

Arren si stupiva del potere che adesso il suo compagno usava con tanta disinvoltura, e una volta disse: — Quando abbiamo incominciato il viaggio, tu non operavi incantesimi.

—  La prima lezione, a Roke, e l’ultima, è: fa ciò che è necessario, niente di più.

—  E le lezioni di mezzo, quindi, devono consistere nell’imparare ciò che è necessario.

—  Infatti. Bisogna tener presente l’Equilibrio. Ma quando lo stesso Equilibrio è infranto… allora si considerano altre cose. Soprattutto, la necessità di affrettarsi.

—  Ma come mai tutti i maghi del sud, e delle altre terre, ormai, e perfino i cantori delle zattere, hanno perso tutta la loro arte ma tu hai conservato la tua?

—  Perché io non desidero nulla oltre alla mia arte — rispose Sparviero.

Dopo qualche istante aggiunse, più allegramente: — E se presto dovrò perderla, cercherò di sfruttarla finché dura.

Adesso c’era veramente in lui una specie di spensieratezza, un senso di piacere per le sue facoltà, che Arren, vedendolo sempre così cauto, non aveva immaginato. La mente del mago si rallegra dei trucchi: un mago è anche un prestigiatore. Il camuffamento di Sparviero a Città Hort, che aveva tanto turbato Arren, per lui era stato un gioco: un gioco di poco conto, per uno che poteva trasformare a volontà non soltanto il volto e la voce ma anche il corpo e l’intero essere e così diventare un pesce, un delfino o un falco, come preferiva. E una volta disse: — Guarda, Arren: ti mostrerò Gont. — E gli disse di guardare la superficie del barile dell’acqua, che aveva scoperchiato e che era pieno fino all’orlo. Molti semplici incantatori sanno far apparire un’immagine nello specchio dell’acqua, e così aveva fatto anche lui: una grande montagna inghirlandata di nubi, che sorgeva dal mare grigio. Poi l’immagine cambiò, e Arren vide chiaramente uno strapiombo, su quell’isola. Gli sembrava di essere un uccello, gabbiano o falcone, librato nel vento a una certa distanza dalla riva, e di guardare attraverso il vento il precipizio che saliva torreggiando dai frangenti per seicento braccia. In alto, sul ciglio, c’era una casetta. — Quello è Re Albi — disse Sparviero, — e là vive il mio maestro Ogion, che molto tempo fa arrestò un terremoto. Bada alle sue capre, e raccoglie erba, e tace. Mi chiedo se vaga ancora sulla montagna: ormai è molto vecchio. Ma lo saprei, lo saprei sicuramente, anche ora, se Ogion morisse… — Non c’era certezza, nella sua voce; per un momento l’immagine tremolò, come se l’immensa parete di roccia precipitasse. Poi l’immagine si schiarì, e si schiarì anche la sua voce. — Andava solo tra le foreste, nella tarda estate e in autunno. Fu così che m’incontrò per la prima volta, quando ero un bambinetto di un villaggio di montagna, e mi diede il mio nome. E con il nome, la vita. — L’immagine mostrata dallo specchio d’acqua appariva adesso come se l’osservatore fosse un uccello tra i rami della foresta e scrutasse i prati digradanti e assolati sotto la roccia e la neve della vetta, lungo una strada scoscesa che scendeva in un’oscurità verde screziata d’oro. — Non esiste un silenzio come il silenzio di quelle foreste — disse Sparviero, in tono di nostalgia.