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Guardarono la stella che sorgeva dall’inquieto orizzonte del mare e brillava di luce costante.

—  Hai cantato il lamento di Elfarran — disse Sparviero, — come se tu conoscessi la sua angoscia e la facessi conoscere anche a me… Tra tutte le storie di Earthsea, mi ha sempre affascinato più di ogni altra. Il grande coraggio di Morred, in lotta contro la disperazione; e Serriadh che nacque al di là della disperazione, il re dolce. E lei, Elfarran. Quando io commisi il male più grande che abbia mai commesso, credevo di rivolgermi alla sua bellezza; e la vidi… Per un momento, vidi Elfarran.

Un brivido freddo corse lungo la schiena di Arren. Lui deglutì e rimase in silenzio, guardando la bellissima stella minacciosa, gialla come un topazio.

—  Qual è il tuo eroe preferito? — chiese il mago; e Arren rispose, con una leggera esitazione: — Erreth-Akbe.

—  Perché era il più grande?

—  Perché avrebbe potuto governare su tutto Earthsea ma scelse di non farlo e se ne andò da solo e morì solo, combattendo contro il drago Orm sulla spiaggia di Selidor.

Restarono così per un poco, ognuno immerso nei propri pensieri; poi Arren domandò, senza distogliere gli occhi dalla gialla Gobardon: — È vero, dunque, che i morti possono essere riportati in vita dalla magia e possono parlare alle anime viventi?

—  Mediante gli incantesimi dell’Evocazione. È un nostro potere. Ma questo viene fatto molto di rado, e dubito che farlo sia saggio. In questo, il Maestro Evocatore è pienamente d’accordo con me: lui non usa e non insegna la Tradizione di Paln, che racchiude quegli incantesimi. Il più grande di tutti venne ideato da colui che è chiamato Mago Grigio di Paln, mille anni orsono. Evocava gli spiriti degli eroi e dei maghi, e perfino quello di Erreth-Akbe, per consigliare i signori di Paln nelle guerre e nel governo. Ma per Paln vennero tempi duri; e il Mago Grigio venne scacciato: morì senza nome.

—  Quindi è una cosa malvagia?

—  Direi piuttosto che si tratta di un equivoco. Un equivoco sulla vita. Morte e vita sono la stessa cosa… come i due lati della mia mano, il palmo e il dorso. Eppure il palmo e il dorso non sono la stessa cosa… Non è possibile separarli né confonderli.

—  Allora nessuno usa più quegli incantesimi?

—  Ho conosciuto soltanto un uomo che li usava spensieratamente, senza tener conto dei rischi. Perché sono rischiosi, più pericolosi di qualunque altra magia. La morte e la vita sono come i due lati della mia mano, ho detto, ma in verità noi non sappiamo cosa sia la vita né cosa sia la morte. Rivendicare il potere su ciò che non comprendi non è saggio, ed è difficile che il risultato sia benefico.

—  Chi era l’uomo che li usava? — chiese Arren. Sparviero non si era mai mostrato disposto a rispondere alle domande come adesso, in quell’atmosfera tranquilla e pensierosa: entrambi trovavano consolazione in quel colloquio, anche se l’argomento che trattavano era tenebroso.

—  Viveva in Havnor. Lo consideravano un semplice incantatore ma era un grande mago, per il suo potere innato, istintivo. Guadagnava denaro, con la sua arte; mostrava a chi lo pagava lo spirito che quello desiderava vedere, la moglie morta, o il marito o il figlio defunto, e riempiva la sua casa di ombre irrequiete dei secoli antichi, le belle donne dei tempi dei re. Io gli ho visto evocare dalla Terra Arida il mio vecchio maestro, che era stato arcimago durante la mia giovinezza, Nemmerle: e l’aveva fatto solo per divertire un gruppo di sfaccendati. E quella grande anima accorse al suo richiamo, come un cane ubbidiente. Mi infuriai, e lo sfidai (non ero arcimago, allora) dicendo: «Tu costringi i morti a venire nella tua casa: sei disposto a venire con me nella loro?». E lo costrinsi a venire con me nella Terra Arida, sebbene si opponesse con tutta la sua forza di volontà e mutasse forma e piangesse a voce alta, quando si accorse che tutto il resto era inutile.

—  E allora l’hai ucciso? — bisbigliò Arren, affascinato.

—  No! Lo costrinsi a seguirmi nella terra dei morti, e a ritornarne insieme a me. Aveva paura. Lui che chiamava a sé i morti con tanta disinvoltura aveva paura della morte, della propria morte, più di qualunque altro uomo che io abbia mai conosciuto. Al muro di pietre… Ma ti sto dicendo più di quanto sia lecito sapere a un novizio. E tu non sei neppure un novizio. — Nel crepuscolo, gli occhi acuti ricambiarono per un momento lo sguardo di Arren, suscitando in lui un senso di timidezza e di vergogna. — Non importa — disse l’arcimago. — C’è un muro di pietre, dunque, in un certo luogo, al confine. Lo spirito lo varca e va alla morte, e l’uomo vivo può varcarlo e ritornare, se è un mago… Accanto al muro di pietre, quell’uomo si accovacciò, dalla parte dei vivi, e cercò di resistere alla mia volontà, ma non poté. Si aggrappava con le mani alle pietre, e imprecava e urlava. Non ho mai visto una simile paura: la sua nausea nauseava anche me. E questo avrebbe dovuto farmi comprendere che sbagliavo. Ero in preda all’ira e alla vanità. Perché lui era fortissimo, e io smaniavo dal desiderio di dimostrare che ero ancora più forte.

—  E dopo cos’ha fatto, quando siete ritornati?

—  Si umiliò, e giurò di non usare mai più la Tradizione di Paln; mi baciò la mano, e mi avrebbe ucciso, se avesse osato farlo. Lasciò Havnor e se ne andò in occidente, forse a Paln: anni dopo venni a sapere che era morto. Aveva già i capelli canuti quando lo conobbi, sebbene avesse le braccia lunghe e fosse agile come un lottatore. Che cosa mi ha indotto a parlare di lui? Non riesco neppure a rammentare il suo nome.

—  Il suo vero nome?

—  No! Quello lo ricordo… — Sparviero s’interruppe, e per lo spazio di tre battiti di cuore restò immobile, in silenzio.

—  Lo chiamavano Pannocchia, a Havnor — disse con voce mutata, guardinga. Si era fatto troppo buio perché fosse possibile scorgere la sua espressione. Arren lo vide voltarsi a scrutare la stella gialla, che adesso era più alta sulle onde e gettava sull’acqua una scia spezzata d’oro, sottile come un filo di ragno. Dopo un lungo silenzio disse: — Non è solo nei sogni, capisci, che ci troviamo di fronte a ciò che deve ancora essere in ciò che è dimenticato da molto tempo, e diciamo cose che sembrano assurde perché non ne comprendiamo il significato.

LORBANERY

Vista attraverso dieci miglia d’acqua illuminata dal sole, Lorbanery era verde, verde come il muschio brillante sull’orlo di una fontana. Da vicino si frammentava in fronde, e tronchi d’albero e ombre e strade e case, e volti e indumenti di esseri umani, e polvere, e tutto ciò che compone un’isola abitata dagli uomini. Eppure, nel complesso, era ancora verde: perché ogni acro che non era coperto da case o da strade era lasciato ai bassi e tondeggianti alberi di hurbah, delle cui foglie si nutrono i piccoli bachi che filano la seta, tessuta poi dagli uomini e dalle donne e dai bambini di Lorbanery. Al crepuscolo, l’aria si riempie di piccoli pipistrelli grigi che si nutrono di quei bachi. Ne divorano molti, ma i tessitori di seta li lasciano fare e non li uccidono, e anzi considerano di malaugurio l’uccisione dei pipistrelli dalle ali grige. Perché, dicono, se gli esseri umani vivono dei bachi, anche le piccole nottole hanno il diritto di farlo.

Le case erano strane, con le finestrelle situate a casaccio e i tetti di ramoscelli di hurbah, tutti verdi di muschio e di licheni. Era stata un’isola ricca, per quanto lo sono le isole dello stretto, e lo si poteva vedere tuttora nelle case ben dipinte e ben arredate, nei grandi arcolai e telai delle casette e degli opifici, e nei pontili di pietra del piccolo porto di Sosara, dove potevano attraccare parecchie grandi galee. Ma non c’erano galee, nel porto. Il colore delle case era sbiadito, non c’erano mobili nuovi, e quasi tutti gli arcolai e telai erano fermi, coperti di polvere, e c’erano ragnatele tra un pedale e l’altro, fra intelaiatura e ordito.