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Lepre stava più eretto, e tremava meno del solito; si era ripulito la bocca e i denti; e all’inizio parlò con lucidità, sebbene in tono eccitato. Nella luce della lampada i suoi occhi erano così scuri che la sclerotica non si vedeva, come negli occhi degli animali. Discusse concitatamente con Sparviero, esortandolo a mangiare l’hazia. — Voglio condurti con me. Dobbiamo percorrere la stessa strada. Tra poco io andrò, che tu sia pronto o no. Devi prendere l’hazia, per seguirmi.

—  Credo di poterti seguire.

—  Non dove andrò io. Questo non è… un incantesimo. — Sembrava incapace di pronunciare le parole «mago» e «magia». — Io so che tu puoi giungere nel… nel luogo: lo sai, al muro. Ma non è là. È una strada diversa.

—  Se tu andrai, potrò seguirti.

Lepre scosse la testa. Il bel volto devastato era soffuso di rossore; spesso girava gli occhi per guardare Arren, includendo anche lui sebbene parlasse soltanto a Sparviero. — Ascolta: ci sono due specie di uomini, no? La nostra specie, e gli altri. I… i draghi e gli altri. Gli umani senza potere sono vivi soltanto a metà. Non contano. Non sanno cosa sognano; hanno paura dell’oscurità. Ma gli altri, i signori degli uomini, non hanno paura di addentrarsi nella tenebra. Noi abbiamo la forza.

—  Purché conosciamo i nomi delle cose.

—  Ma là i nomi non hanno importanza: è questo il punto, è questo il punto! Non si ha bisogno di quello che si fa, di quello che si sa. Gli incantesimi sono inutili. Si deve dimenticare tutto questo: si deve lasciar perdere. Mangiare hazia serve appunto a questo: si dimenticano i nomi, si lascia andare la forma delle cose, e si va dritto alla realtà. Tra poco io vi andrò: se vuoi scoprire dove vado, dovrai fare ciò che ti dico. Io dico ciò che lui dice. Per essere signori della vita si deve essere signori degli uomini. Si deve scoprire il segreto. Io potrei dirtene il nome, ma cos’è un nome? Un nome non è reale, non è la realtà eterna. I draghi non possono andarvi. I draghi muoiono. Tutti muoiono. Stanotte ne ho presa tanta, di hazia, che non potrai mai raggiungermi. Non c’è neppure una macchia, su di me. Dove mi smarrirò, tu potrai guidarmi. Ricordi qual è il segreto? Ricordi? Niente morte. Niente morte… no! Niente letto sudato, niente bara putrefatta, mai più, mai più. Il sangue si prosciuga come un fiume in secca, e scompare. Niente paura. Niente morte. I nomi svaniscono, e svaniscono anche le parole e la paura. Mostrami dove mi smarrisco: mostramelo, mio signore…

E continuò così, in una soffocata estasi di parole che era come il salmodiare di un incantesimo e che tuttavia non formava un incantesimo, un tutto unico, un senso. Arren ascoltava, ascoltava, sforzandosi di comprendere. Se almeno fosse riuscito a capire! Sparviero doveva fare ciò che l’altro diceva, e prendere la droga, per quella volta, per poter scoprire di cosa stava parlando Lepre, il mistero di cui non voleva o non poteva parlare. Perché erano venuti lì, altrimenti? Ma del resto (Arren distolse lo sguardo dal volto estatico di Lepre per fissare l’altro profilo), forse il mago aveva già compreso… Era duro come la roccia, quel profilo. Dov’erano il naso rincagnato e l’espressione blanda? Falco, il mercante, era scomparso, dimenticato. Lì stava il mago, l’arcimago.

La voce di Lepre era divenuta un borbottio ritmico; e il suo corpo oscillava, seduto a gambe incrociate. Il volto era scavato, la bocca socchiusa. Di fronte a lui, nella piccola luce ferma della lampada a olio posata sul pavimento, l’altro non parlava mai; ma aveva teso il braccio e aveva preso la mano di Lepre. Arren non l’aveva visto compiere quel gesto. C’erano lacune nell’ordine degli eventi, lacune d’inesistenza… Doveva essere torpore. Senza dubbio erano trascorse alcune ore: poteva essere quasi mezzanotte. Se si addormentava, sarebbe riuscito a seguire anche lui Lepre nel sogno e giungere a quel luogo, alla vita segreta? Forse sì. Adesso gli sembrava possibile. Ma doveva sorvegliare la porta. Lui e Sparviero non ne avevano quasi parlato; ma entrambi erano consapevoli che facendoli tornare di notte a casa sua Lepre poteva aver progettato un’imboscata: era stato un pirata, conosceva molti predoni. Non avevano detto nulla, ma Arren sapeva che doveva stare in guardia perché, mentre il mago compiva quello strano viaggio dello spirito, era indifeso. Ma, scioccamente, aveva lasciato la spada a bordo della barca; e a cosa sarebbe servito il suo coltello, se quella porta si fosse aperta improvvisamente dietro di lui? Ma questo non sarebbe accaduto: lui poteva ascoltare e udire. Lepre non parlava più. I due uomini tacevano; tutta la casa taceva. Nessuno poteva salire quelle scale malferme senza far rumore. Lui avrebbe potuto parlare, se avesse udito un suono; avrebbe gridato, e la trance si sarebbe spezzata, e Sparviero si sarebbe voltato e avrebbe difeso se stesso e lui con tutte le folgori vendicative della furia di un incantatore… Quando lui si era seduto sul pavimento, Sparviero l’aveva guardato: un’occhiata sola, di approvazione; approvazione e fiducia. Lui era la sentinella. Non ci sarebbero stati pericoli, se lui montava di guardia. Ma era difficile continuare a osservare quei due volti, con la minuscola perla della lampada che stava tra loro sul pavimento, adesso che entrambi tacevano e stavano immobili, con gli occhi aperti che non vedevano la luce né la stanza polverosa, non vedevano il mondo, bensì qualche altro mondo del sogno o della morte: osservarli e non cercare di seguirli…

Là, nell’immensa oscurità asciutta, c’era qualcuno che lo chiamava a cenni. Vieni, disse l’alto signore delle ombre. Nella mano reggeva una minuscola fiamma, non più grande di una perla: la protendeva verso di lui, offrendo la vita. Lentamente, Arren mosse un passo nella sua direzione, per seguirlo.

LUCE INCANTATA

Aveva la bocca secca, e piena di un sapore di polvere. Le sue labbra erano coperte di polvere.

Senza sollevare la testa dal pavimento, osservò il gioco delle ombre. C’erano le ombre grandissime che si muovevano e si piegavano, ingrandivano e rimpicciolivano; e altre, più fioche, che correvano svelte intorno alle pareti e al soffitto, irridendo quelle più grandi. C’erano un’ombra nell’angolo e un’ombra sul pavimento, e nessuna delle due si muoveva.

La nuca incominciava a dolergli. E nello stesso tempo, ciò che vedeva gli appariva chiarissimo, nella mente, in un unico bagliore cristallizzato in un istante: Lepre accasciato in un angolo, con la testa sulle ginocchia, Sparviero lungo disteso, riverso, e un uomo stava inginocchiato accanto a lui, e un altro gettava pezzi d’oro in una borsa, e un altro ancora stava in piedi e osservava. Il terzo uomo stringeva una lanterna in una mano e un pugnale nell’altra: il pugnale di Arren.

Anche se parlavano, lui non li udiva. Udiva soltanto i propri pensieri, che gli dettarono immediatamente, senza esitazioni, ciò che doveva fare. Subito eseguì. Si trascinò in avanti per un mezzo braccio con estrema lentezza, protese di scatto la mano sinistra e afferrò la borsa del bottino, balzò in piedi e si lanciò verso la scala con un grido rauco. Si precipitò giù per i gradini, nella cieca oscurità, senza mettere i piedi in fallo, come se stesse volando. Irruppe nella strada e corse via, a tutta velocità, nel buio.

Le case erano masse scure contro lo sfondo delle stelle. La fievole luce del cielo brillava sulla sua destra, e sebbene lui non potesse vedere dove conducevano le strade, riusciva a scorgere i crocicchi, e perciò poteva svoltare e ritornare indietro. Gli sconosciuti l’avevano seguito: li sentiva dietro di sé, non molto lontano. Erano scalzi, e il loro respiro ansimante era più rumoroso dei loro passi. Arren avrebbe riso, se ne avesse avuto il tempo: finalmente sapeva cosa si prova quando si è la selvaggina anziché il cacciatore, la preda anziché il capo della muta. Significa essere soli, e liberi. Deviò verso destra e corse, tenendosi chino, attraverso un ponte dal parapetto alto; s’infilò in una strada laterale, svoltò a un angolo, ritornò sul lungofiume e lo percorse per un tratto, poi attraversò un altro ponte. Le sue scarpe risuonavano rumorosamente sui ciottoli, ed era l’unico suono in tutta la città. Si fermò al riparo del ponte per slacciarle: ma le stringhe si erano ingarbugliate, e gli inseguitori non avevano perso le sue tracce. La lanterna scintillò, oltre il fiume; i passi pesanti e rapidi si avvicinarono. Non riusciva a liberarsene. Poteva soltanto distanziarli, continuare a correre, per condurli più lontano dalla stanza polverosa, sempre più lontano…